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recensioni
IL REPORT SUL FESTIVAL DI CASTELFIORENTINO
TEATRO FRA LE GENERAZIONI VISTO DA MARIO BIANCHI E ROSSELLA MARCHI

Guarda le foto di Massimo Bertoni

Il Festival “Teatro fra le generazioni”, che si svolge da dieci anni nel piccolo comune toscano di Castelfiorentino, per merito della lodevole compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, non è mai stato un Festival come gli altri: nel senso che, pur ospitando, nei tre giorni in cui si compone diversi spettacoli, molti in prima nazionale, esigenza tra l'altro urgentissima nei tempi grami che stiamo vivendo, è sempre stata anche un'occasione per riflettere sul teatro per l'infanzia e sulle sue prospettive, con un occhio, poi, anche alla Toscana e alla sua importante rete teatrale. Un Festival particolare, ribadiscono con forza gli organizzatori, sottolineando “ che quel “fra” inserito nel nome della Manifestazione non è un escamotage linguistico ma l’indicazione di un’operatività possibile, immaginando che un teatro che ha un referente privilegiato, un teatro “per”, non usi quell’indicazione per perimetrare la sua platea in aree anagrafiche sempre più piccole e chiuse. Al contrario si vuole contribuire a promuovere logiche e pratiche creative che, pur preservando la logica del referente privilegiato, la usi come ponte drammaturgico e creativo, che aspira a generare opere e progetti, che cercano di dialogare con aree della platea sempre più vaste, cercando di parlare, contemporaneamente ed in maniera efficace, a differenti generazioni di spettatori.”

La X edizione del festival aveva preso vita già nel mese di Marzo con un’iniziativa on line denominata “Il teatro e i suoi multipli”: una programmazione di alcune produzioni sceniche per il pubblico delle nuove generazioni, realizzate per essere viste da una platea remota.
Il 18 marzo quella programmazione “on line” e le singoli creazioni che la componevano, è stata analizzata da artisti, operatori e critici, come prototipi di percorsi originali che si incamminavano verso nuovi orizzonti di ricerca. Queste tematiche sono state approfondite poi durante il vero e proprio Festival, in presenza, che si è tenuto dal 3 al 5 Giugno al Teatro del Popolo di Castelfiorentino. Giorgio Testa e Giuseppe Antelmo della Casa dello Spettatore di Roma, il 3 giugno, hanno mostrato i primi risultati dell' indagine realizzata per mezzo di questionari somministrati ai ragazzi circa la loro reazione davanti agli spettacoli de il “Il teatro e i suoi multipli” programmati on line, con osservazioni molto interessanti,  rispetto anche alla loro precedente presenza in carne e ossa davanti all'atto teatrale.
Il 4 Giugno invece un apposito incontro che, oltre a riflettere sul rapporto “antico” tra teatro e tecnologia, ha portato alla luce, con l’aiuto della studiosa Anna Maria Monteverdi, tutte le necessità e le prospettive dal teatro attraverso le nuove ottiche, scaturite in questo periodo. Durante il Festival sono stati presentati poi anche altri due progetti “ Reazione a Catena,” la rete di festival italiani e stranieri che ha la mission di aiutare le compagnie italiane a conoscere il panorama di Festival internazionali e “Arcipelago Ragazzi”, indagine sul teatro ragazzi in Toscana condotta da Altre Velocità.

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Un festival quello di quest'anno che tra uno spettacolo e l'altro ci ha regalato davvero momenti indimenticabili come il bellissimo ricordo di Giacomo Verde, O/Maggio O/giugno, a Giacomo, installazione per Giacomo Verde, presente il figlio Tommaso, fatta di video, pensieri, ricerche che sono stati raccolti in una preziosa chiavetta, come del resto avrebbe voluto l'artista empolese, uno dei grandi ricercatori del Teatro italiano, che ha percorso quarant'anni della nostra vita, lasciandoci ricordi indelebili. Indimenticabile anche la riproposizione trent'anni dopo del teleracconto di Giallo Mare Minimal Teatro, " Boccascena ", videoracconto di Vania Pucci e Renzo Boldrini in cui la bocca di Vania diventa l'originale palcoscenico di 4 narrazioni , la storia di Polifemo, Biancaneve, Moby Dick e Cappuccetto Rosso. Tutto realizzato come se trent'anni non fossero passati con l'ausilio di capelli, stoffe, stecchini, vetri colorati, specchi che intervengono nelle storie raccontate, facendole diventare uniche.

E che dire poi dell' emozione provata per lo scambio di saperi tra Luigi d'Elia e Simona Gambaro, in cui l'artista pugliese ha regalato alla sua omologa ligure, privata della sua storica compagnia, uno dei suoi cavalli di battaglia “Storia di amore e alberi” che Simona Gambaro ha fatto subito suo in modo diverso e altrettanto personale.
Al festival poi si è potuto rivedere anche “Ulisse. Nessuno è perfetto” della compagnia tarantina Crest, che avevamo già apprezzato al Maggio all'infanzia del 2019 in cui l’eroe greco è presentato in modo nuovo, smitizzandone la figura e facendone emergere vizi e contraddizioni , rendendocelo in definitiva più umano.

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Ovviamente rispetto al tema del Teatro e i suoi Multipli, nei tre giorni di Castelfiorentino, lo confessiamo, abbiamo tralasciato gli spettacoli on line o in streaming, per concentrarci su quelli visti dal vivo che ci hanno ulteriormente permesso di ragionare, come spettatori, intorno alle possibilità e alle potenzialità che le nuove tecnologie ci possono fornire, assistendo così a creazioni, nelle quali esse dialogano perfettamente con la danza, il teatro di figura e il corpo dell'attore.
In “Anouk “ della Compagnia pratese TPO, per esempio, dopo l'Islanda siamo volati in Groenlandia, muniti di cuffie, attraverso lo stretto rapporto di due compagne di banco, una ragazza di quei luoghi lontanissimi e di una coetanea italiana. Anouk, arrivata da così lontano, racconta all'amica le abitudini della sua gente, dove il naso è la porta dell'anima, dove il ghiaccio ovatta ogni cosa, Valentina aiuta invece l'amica a vivere nel caos della città. Běla Dobiášová e Valentina Consoli,
 su coreografia Anna Balducci e le musiche dal vivo di Federica Camiciola e Francesco Fanciullacci,
danzando e dialogando tra loro, restituiscono ai bambini tutti i vari sentimenti che le parole delle due performer ci rimbalzano nelle orecchie, complice anche un orso, simpaticissimo e bisognoso di affetto.
Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza della livornese “Orto degli Ananassi” invece in “Sii gentile abbi coraggio, mettono in scena, accompagnati dalle stesse parole di Anna Frank, racchiuse nel suo famoso Diario, i suoi giorni di segregazione tra il luglio del 1942 e l’agosto del 1944, quando rimase nascosta con la sua famiglia e altri coinquilini negli ultimi due piani della ditta di spezie del padre, in via Prinsengracht, ad Amsterdam.
Un piccolo teatrino al centro del palcoscenico e un diorama permettono agli spettatori più piccoli per mezzo delle deliziose figurine create dai disegni di Alberto Pagliaro e le musiche originali di Ellie Young di partecipare ai pensieri più intimi di Anna, intrisi di speranza e bellezza, facendo loro comprendere in modo semplice e diretto come quella speranza e quella bellezza ancora vive e palpitanti, abbiano potuto sconfiggere alla fine tutto l'orrore di una violenza feroce e ingiustificata.
Carlo Presotto  e Paola Rossi de La Piccionaia infine in “Comincia a correre” si inoltrano nella vita di Alberto e Zoe, due fratelli gemelli che, già dal momento della loro nascita, si mettono a gareggiare su chi potrebbe essere il migliore. Arrivati in terza, i due, per definire la supremazia di uno sull'altro, si mettono addirittura a gareggiare tra loro per mezzo di prove sempre più difficili, finché capiscono che la sfida giusta in questo mondo è allearsi per vincere insieme. Ispirati da coppie di donne e uomini famosi, come Marie e Pierre Curie, Fred Astaire e la sorella Adele, Lucy Hawking e suo padre Stephen, andranno a scoprire come anche l' universo sia composto da diverse unicità che si mettono insieme per creare la meraviglia del cielo stellato. Lo spettacolo mescola in modo intelligente ed inventivo, come se fosse un set televisivo, ogni tecnica comunicativa possibile in cui il corpo e la voce dei due attori dialogano con il loro doppio in immagine, con il teatro di figura, con il video, con gli oggetti piccoli e grandi. Anche qui dunque tante unicità si mettono insieme per formare un universo teatrale, nuovo e didatticamente utile.

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Ancora ulteriormente da registrare, al suo debutto, dopo il complicato periodo dovuto alla Pandemia, ma
che possiede tutte le potenzialità per approfondire in modo adeguato agli adolescenti la figura di Pier Paolo Pasolini e, nel contempo, sottolineare metaforicamente come la poesia possa interpretare i diversi aspetti del mondo, ci è parso l'omaggio al poeta friulano, proposto in una coproduzione da una compagnia lombarda, Teatro Invito e una friulana, Ortoteatro
Dove sono le lucciole” con Fabio Scaramucci e Stefano Bresciani, le scene e luci di Andrea Violato
 su regia e drammaturgia Luca Radaelli con le musiche originali Maurizio Aliffi e le Immagini di Silvio Combi, Ilaria Pezone e Davide Scaccianoce
L'escamotage, utilizzato da Radaelli per approfondire la figura del poeta, è quello di un'intervista che deve condurre uno sprovveduto giornalista sportivo, capitombolato non si sa come a dover parlare sul suo giornale di Pier Paolo Pasolini e della sua vocazione poetica. L'interlocutore scelto per l'intervista è un contadino friulano, antico allievo del poeta, che molto giovane lo aveva avuto come maestro a Casarsa.
Attraverso i ricordi dell'uomo, intrisi di una sapienza popolare, corroborata dall'amore per la poesia, nata probabilmente dall'incontro con Pasolini, che si confrontano con la grassa ignoranza del giornalista, inizia un viaggio alla ricerca del mondo poetico di Pasolini, del suo rapporto con la natura, innanzitutto simboleggiato dalle lucciole. In questo modo i ragazzi, al quale lo spettacolo è meritoriamente dedicato, nella sua meditato approccio didascalico, veniamo a scoprire la sua omosessualità, la sua adesione alle lotte sociali, la sua vicinanza con gli ultimi, il bellissimo rapporto con la madre e il contrastato con il padre, il suo amore per il calcio, la paura di un finto progresso che tutto omologa, la profezia dell'arrivo di milioni di migranti. Nel medesimo tempo dal confronto escono anche sottolineate tutta la forza dirompente della poesia e le sue regole primarie per interpretarla.
Come detto il tutto non risulta ancora ben armonizzato, non c'è ancora la necessaria coesione tra le scene ed il loro rapporto con le immagini, Fabio Scaramucci, alla sua più impegnativa prova di attore, assai diverse dalle precedenti, nella quale si è messo coraggiosamente alla prova, deve trovare ancora la giusta misura del personaggio, ma sono difetti che secondo noi potranno essere eliminati con la continuità delle repliche e con il confronto con il pubblico dei ragazzi ai quali la creazione di Radaelli è meritoriamente dedicata.

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Ci è sembrato proprio di esserci in quella città, in quelle case, in quella scuola, in quel banco, vicino a quella bambina, Lucia Ghibelli, a osservare il suo mondo con quegli occhi suoi così curiosi, con quel desiderio pieno di vita che la contraddistingue, con quella sua mente così capace di cogliere tutte le diversità del mondo, quelle giuste e buone, quelle ingiuste e insensate . Ci è sembrato davvero di esserci alla Scuola Elementare “Giovanni Pascoli” così vicina alla casa di Lucia. Ci è sembrato di vederli vivi tutti i personaggi che in quegli anni facevano parte della sua piccola grande vita : la sua (forse) migliore amica Antonella, Tonino, il custode della scuola, che ci viveva dentro, lui nella scuola con tutta la sua famiglia, i suoi compagni di classe, Fabio Marangelli, il biondino con i capelli a spaghetto, che faceva sempre tardi, Felice Filippo di cui non si era ancora capito quale fosse il nome e quale il cognome... tanto lui si girava sempre, il suo primo amore Marco che aveva gli occhi celesti come il cielo e quando sorrideva si apriva veramente il cielo, Valentina, la più snob della classe che vestiva sempre alla moda. Ma con loro abbiamo amato anche i grandi, il maestro Bevilacqua, il miglior maestro del mondo, sempre attento ai bisogni di tutti e comprensivo che stimolava tutti con quella sua gara di Disegno, la terribile vigilatrice che dispensava le pasticche di fluoro per i denti, che misurava peso e altezza, sentiva il cuore, i polmoni, che guardava in bocca e in gola, ma, soprattutto, guardava in testa di tutti i ragazzi cercando i pidocchi che regolarmente la nonna di Lucia doveva uccidere per liberarne la nipotina, e poi la mamma della protagonista che l'aveva tirata su molto bene la figlia, senza un marito che fugacemente faceva la sua comparsa, una volta ogni tanto.
Ma poi, poi tra tutti i personaggi che costellano i ricordi di Lucia, abbiamo fatto il tifo per Esterina, Esterina Gagliardo, grande e grossa, più volte ripetente, che parlava quasi sempre in dialetto con quella sua voce cavernosa. Esterina che tutti un poco sotto sotto disprezzavano, di cui forse avevano anche paura, grande e grossa come era ma che tutti sotto sotto irridevano. Esterina che veniva a scuola dal primo giorno, ogni giorno, sempre e soltanto con un paio di pantaloni e sopra un maglione pesante a collo alto blu. Il grembiule celeste di ordinanza poi a lei andava corto di braccia e anche sulle gambe. Tutti sapevano che era l'unico vestito che aveva : era povera Esterina, ma lei infischiandosene diceva “ Ciend ne ho … tutti in fila ijnd ‘o stipone!”, d’ seta, d’ tutte i culure!”... pure d’ vellute. ciend vestite... tutti in fila ijnd ‘o stipone!”. Fu per quello che tutti incominciarono a chiamarla : Esterina Centovestiti. Faremmo un torto allo spettacolo, svelandovi come va a finire la storia di Lucia ed Esterina, dicendovi solo che Esterina quei vestiti ce li aveva davvero e bellissimi. Daria Paoletta di Burambò, torna alla grande con “Esterina Centovestiti”, con il suo spettacolo più bello, dedicato ai ragazzi. Servendosi solo di tre sedie e una cornice, aiutata dal fido Enrico Messina per luci, scena e regia, ci regala un 'ora pervasa da profumo d'infanzia, dove sempre le parole, collegandosi ai gesti, diventano immagini nitidissime, intrise di poetica sostanza in una storia, dove il bullismo fa solo capolino, per dire a noi, ma soprattutto ai ragazzi, che ciò che appare a volte non è come davvero è, basta solo vivere, gustando tutto ciò che la vita ci regala, senza pregiudizi.

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Bella, profonda e appassionata, nella sua, solo apparente, meditata, spoglia, resa scenica, la riflessione che Gigi Gherzi e Giuseppe Semeraro con la Regia di Fabrizio Saccomanno, conducono sul tema della Paternità, con la sola densità delle parole.
Ne “Il Figlio che sarò” Gigi Gherzi, in proscenio, è Vito, un vecchio professore di lettere, mentre Giuseppe Semeraro in scena, quasi in penombra, seduto, è Giovanni, suo ex allievo. Nella radiografia che il Teatro intende fare del concetto multiforme di Padre che in ogni frammento dello spettacolo si interseca con quello di Figlio, si ritrovano vent’anni dopo l’esame di maturità. Giovanni è adulto, ormai padre, e chiede al suo vecchio professore, in cui ha visto sempre quella figura, perchè molte volte ha risposto alle sue ingenue domande di allora, confortandolo in tutte le sue fragilità, consigli su come cercare di comprendere quelle del figlio, così lontano dal suo sentire, in un rapporto fatto soprattutto di silenzi. Il vecchio professore a cui i genitori dei suoi alunni fanno sempre e di più domande su come comportarsi con i propri figli, non avendo risposte certe, allora, lo stesso, proprio come un padre, si attrezza e, davanti all'ardua impresa, non può far altro che rammentare a Giovanni il figlio che è stato. Così Vito decide di accompagnare Giovanni a spiare, nella valle dei ricordi, quel Giovanni di allora. Quel Giovanni di allora, cosi insicuro nella sua pretesa sicurezza, tutto segnato dai tormenti dell’adolescenza e da un rapporto assai complicato con il padre. Un padre figlio di immigrati, cresciuto tra gli ulivi, scorbutico, (lo chiavano, Attila) zoppo da una gamba, cosa che lo aveva intristito sempre di più. Con Giovanni, anche attraverso il suo dialetto aspro e ferrigno, percorriamo la sua vita dei primi anni, tra sala giochi, fumo, un coma etilico a tredici anni, il lavoro a undici anni in una panetteria, la sua educazione sentimentale con le prime turbe erotiche e con quel padre sempre accanto così scorbutico, così lontano.
Ma ecco che nel racconto di Giovanni qualcosa cambia, ad un tratto gli balena un ricordo, il ricordo di uno di quei ventimila albanesi sbarcati a Bari nel 1991, quando il padre un giorno si presenta a casa a mezzogiorno con uno di loro, quando il padre d'improvviso gli dice, indicando dei cartoni pieni di ogni ben di Dio “Sti cartoni li dobbiamo portare alla sua famiglia, mi ha detto che sono in difficoltà e che non hanno niente da mangiare...ehi vedi che ti ho fatto il biglietto, andiamo in Albania insieme io e te.” Eh così durante quel viaggio Giovanni e Attila si sono dette più parole che in tutta la vita precedente: padre e figlio si erano ritrovati per merito di un altro figlio, di un altro fratello che la vita aveva miracolosamente loro regalato, rinsaldando un legame che si era solo apparentemente rotto. Giovanni è sempre più grato al suo professore che gli faceva ascoltare Chet Baker, Coltrane e Davis, che lo aveva fatto diventare grande, ricordandogli di tenere sempre di sé l'anima di un bambino. Adesso forse Giovanni ha capito molte cose, si avvicinerà al figlio in modo diverso, aspetterà che il silenzio piano piano si frantumi, con l'età, attraverso nuove esperienze da condividere, consapevole che il tempo passerà anche per lui, che diventerà grande e anche lui avrà un figlio con cui dovrà fare i conti. Così è la vita!

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Di tenerezza incantevole ci è parsa
“Paloma, ballata controtempo” su drammaturgia e regia di Tonio De Nitto, una coproduzione di Factory Compagnia transadriatica e Teatro Koi, dove Michela Marrazzi anima nel vero senso della parola, accompagnata alla cura preziosa di Nadia Milani, Paloma, un marionetta ibrida in gommapiuma, tenera e impacciata, attraversata dagli acciacchi di un'età avanzata, alla ricerca del suo tempo passato, di un amore andatosene troppo presto. A lei fa da contraltare il bravissimo fisarmonicista Rocco Nigro che, con tanto di metronomo a fianco, le ricorda sempre come il tempo sia un nemico inesorabile con cui fare i conti. L'anziana protagonista si presenta lentamente, così come l'età le può permettere, carica di valige diverse, grandi e colorate, da cui a fatica estrae lentamente il suo bagaglio di ricordi. I ricordi sbiaditi di lavori sempre uguali tra cucina e mastello, sempre a servire gli altri, mai ad essere servita; ma un ricordo sì, che è assolutamente preciso e indelebile, così indelebile che nemmeno il tempo può far nulla per cancellarlo, quello del suo Alfonso, di cui ripete insistentemente ma in modo pudico il nome.
L'atmosfera che pervade questo bellissimo spettacolo è di toccante melanconia, mescolata a sana ironia che rende, come si sa, ogni cosa più profonda e nel medesimo tempo accettabile, dove le melodie in spagnolo di sapore sudamericano, intingono ogni cosa di autentica magia, dal sapore ancestrale. Ogni movimento della marionetta è curato nei minimi dettagli nel suo rapporto non facile con l'animatrice e con il fisarmonicista che inesorabile la controlla, non solo musicalmente, ma anche con i gesti e l'espressione del viso, ricordandole i suoi doveri e i suoi più intimi piaceri. Ma, come si sa, alla fine, potremo anche capire che anche il tempo può essere un buon alleato, sia perchè ci permette di lenire anche le ferite più profonde, ma anche, di rendere sempre più vivo il ricordo di chi ci ha lasciato, basta solo trasmetterlo a chi verrà dopo di noi.

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Forse sarà perché i tempi lo richiedono, ma il personaggio di Hitler sembra tornato di moda, lo abbiamo Iinfatti visto sia al cinema con Jojo Rabbit, il film di Taika Waititi, sia già in teatro con “ La Gloria” il bel testo di Fabrizio Sinisi, vincitore dell'ultima edizione Foreveryoung di Corte Ospitale, che indaga sugli anni giovanili del dittatore, già presaghi di quello che sarebbe diventato. Luigi Tagliente della Compagnia La Luna nel Letto in Hitler nelle vite degli altri, scritto con Salvatore Marci, impersonando efficacemente coll'entrare anche nei più profondi loro pensieri, tre figure realmente esistite, operanti in tre diversi campi distinti, l'arte, la chiesa, e la medicina, rispettivamente il direttore d'orchestra Gustav Kubizech, il prelato Rafael Merry del Val e il dottor Theodor Morel, medico personale del Führer, propone agli spettatori un discorso quanto mai attuale su cui già Gramsci si era speso, ripreso recentemente da Liliana Segre “non siate indifferenti al male, non fatelo passare senza schierarvi”. E i tre uomini che non si sono mai incontrati tra loro, ma che tutti e tre lo hanno ben conosciuto e frequentato il male, mai dissociandosene, alla fine della loro carriera, Tagliente si immagina che si giustifichino solo con una frase : Cosa c’entravamo noi con la politica!?”
E infine per suggellare come invece era necessario allora fare, come adesso e sempre, cioè sottolineare l'orrore di quello che avveniva, mentre avveniva, Tagliente propone il famoso discorso finale di Chaplin de “Il grande Dittatore” che nel 1940, in piena ascesa hitleriana, presentandosi come Hitler, ne stravolgeva gli intenti criminosi, proponendo un mondo del tutto diverso. Se lui lo ha fatto, se un artista lo ha fatto, sembra dirci Tagliente, perché voi non lo avete fatto? Era vostro compito, come medico, come artista, come uomo di Dio, farlo. E anche noi ricordiamocelo sempre oggi dobbiamo farlo, il teatro ce lo insegna!

Dopo le gustose e personalissime rielaborazioni per la scena di "Amleto e Ubu Roi", il gruppo toscano Kanterstrasse ci riprova a raccontarci a modo suo i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, su regia e drammaturgia di Simone Martini, con in scena Daniele Bonaiuti, Lorenza Guerrini, Alessio Martinoli e lo stesso Simone Martini. Operazione, se si può, ancora più rischiosa, avendo, davanti il pericolosissimo rimando della versione televisiva del Trio, Lopez, Solenghi, Marchesini, che conoscendo, il nostro Martini, assai bene, come del resto il nostro amatissimo suo omonimo pittore, avrebbe potuto muoversi sugli stessi canoni, spesso irriverenti. Ed infatti lo spettacolo lo è irriverente, a cominciare dalla mise dei nostri eroi, acconciati di bianco, come moderni spadaccini, su quinte semoventi, nerissime, su cui si può scrivere, immaginando anche ambienti e paesaggi. Ma le caricature sono gustose e le parodie conclamate, con i giochi ripetitivi, come quello riferito ai famosi capponi di Renzo, esilaranti. Ma c'è di più, quando si deve fare per davvero, mostrando da vicino i giochi del potere e del destino, rappresentati dalla Monaca di Monza, dall'Innominato e dalla Peste, gli accorgimenti teatrali sono appropriati e profondi. 
E così per chi la conosce davvero la faticosissima storia di Renzo e Lucia, i Promessi sposi di Kanterstrasse potrebbe essere un escamotage gustoso ed interessante per entrarvi in modo diverso e per chi non li conoscesse potrebbe avvicinarvisi in modo tangente con intelligente divertimento.

MARIO BIANCHI


IL PICCOLO ARON E IL SIGNORE DEL BOSCO
Molto ben costruito lo spettacolo rivolto ai più piccoli “Il piccolo Aron e il Signore del Bosco” di Alcantara Teatro, interpretato da una brava Sara Galli per la regia di Damiano Scarpa. La drammaturgia, di Francesco Niccolini, racconta di un bambino di 7 anni, Aron, che ha un rapporto speciale con gli animali e con il bosco. Ha molti amici nella natura il nostro piccolo protagonista: un coniglio, una capra, una papera e un ranocchio e una grande passione per l’esplorazione. È curioso e coraggioso il piccolo Aron, così tanto che quando gli uomini e gli animali che vivono nel bosco cominceranno a soffrire per la mancanza di acqua e di cibo sarà proprio lui ad inoltrarsi nel bosco per cercare la soluzione. Aron però non sa proprio cosa cercare ma sa che prima o poi riceverà un segno che potrà orientarlo alla soluzione. Ed ecco infatti che dopo aver ricercato inutilmente senza mai scoraggiarsi troverà il signore del Bosco. E’ un po’ in soggezione il nostro Aron ma non si farà intimorire troppo da questa presenza che, in cambio della soluzione al problema degli uomini e degli animali, gli chiederà di fargli una promessa. Il signore del Bosco spiegherà al coraggioso esploratore che la situazione che il mondo sta vivendo ha un solo responsabile: l’uomo. L’uomo infatti non convive con la Natura ma la sfrutta senza nessuna attenzione. Sarebbe questo il motivo per il quale la Natura ad un certo punto, ormai stanca di non essere ascoltata, avrebbe deciso di punire gli esseri umani privandoli delle sue risorse. Gli uomini, continua il racconto del signore del Bosco, hanno fatto tante promesse che non hanno mai mantenuto. Ora Aron è di fronte al signore del Bosco e dovrà promettergli di farsi garante del comportamento virtuoso e rispettoso degli uomini nei confronti della Natura. In cambio il signore del Bosco permetterà alle risorse naturali di continuare a nutrire e dissetare gli uomini. Aron promise e fu così che piovve. Aron tornò a casa. Era riuscito là dove gli adulti non avevano avuto successo. Il suo candore aveva conquistato il signore del Bosco e tutta la comunità che da quel momento cominciò una nuova vita. Avrà fortuna questo spettacolo, curato in ogni suo particolare: la drammaturgia, la scena, la regia, le luci. Tuttavia ci lascia la sensazione di aver assistito ad un racconto troppo perfetto che proprio per questo motivo diventa poco credibile e fatica a lasciare residui. Il nostro Aron così bravo, coraggioso e intelligente non permette allo spettatore la possibilità di identificarsi. Fila via tutto in modo asciutto, senza inciampi né imprevisti tanto da lasciare la sensazione allo spettatore di non riuscire ad entrare in quell’irraggiungibile perfezione.

CENERENTOLA
Non proprio uno studio come annunciato quello degli Zaches che hanno presentato la nuova produzione alla quale stanno lavorando, quanto piuttosto venti minuti di spettacolo fatti e finiti. E bellissimi. Si ravvisa nel lavoro degli Zaches quella cura paziente che si nutre di tempo e dettagli, quella ricerca approfondita che tende alla perfezione. Hanno cura dell’occhio e dello spirito gli Zaches in questa “Cenerentola” di cui Luana Gramegna firma la regia. Accarezzano la pupilla per dare soddisfazione all’anima. Il centro della scena un meraviglioso, grande camino ad opera di Francesco Givone. Lo studio si apre con tre divertenti corvi che si trasformeranno in tre streghe che immediatamente riportano a quelle di Macbeth che, in una danza dal ritmo travolgente da far desiderare di avere occhi più grandi per riempirseli tutti, emergeranno dal camino facendo volare in aria una miriade di foglie con il loro scopino creando un effetto suggestivo che alla fine della danza lascia lo spettatore quasi senza forze sulla sedia. Cenerentola è una marionetta animata con levità dalle tre streghe interpretate con estrema bravura da Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco ed Enrica Zampetti e che, come conosciamo, viene insultata e obbligata a pulire e a non pretendere nulla. Meritano una menzione speciale anche i bei costumi di Rachele Ceccotti e le musiche originali di Stefano Ciardi che sostengono perfettamente la messa in scena. I venti minuti terminano lasciando lo spettatore pieno di un desiderio sospeso che anela la prosecuzione del lavoro. Gli Zaches sono riusciti in questo progetto a coniugare la loro cura per la bellezza, orientata come sempre verso un orizzonte quasi contemplativo, con l’ironia e il sorriso che non compromettono affatto la sensazione quasi estatica che vogliono suscitare ma anzi la rafforzano inserendo lo spettatore in un caleidoscopio emotivo che non gli concede una tregua. Attendiamo davvero con impazienza il debutto.
ROSSELLA MARCHI

 Il Festival è reso possibile grazie al sostegno di Regione Toscana, Comune di Castelfiorentino, Fondazione Teatro del Popolo, Banca Cambiano 1884 e Giallo Mare Minimal Teatro.