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recensioni
IL REPORT DI GIOCATEATRO 2018
LE RECENSIONI DI MARIO BIANCHI, ELENA SCOLARI, LAURA BEVIONE E IL PUNTO DI VISTA DI ROSSELLA MARCHI

Dal 18 al 20 aprile, nei variegati spazi della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino, è ritornato per la ventiduesima volta il Festival “Giocateatro”, dedicato alle nuove generazioni, con la direzione artistica di Graziano Melano. Abbiamo potuto così assistere a 20 spettacoli, soprattutto provenienti da Torino e dal Piemonte, abbiamo potuto muovere una bellissima giostra con sculture in legno della compagnia francese Theatre de la Toupine, partecipare ad un concerto davvero speciale, realizzato da musicisti così detti abili e così detti diversamente abili di Drum Theatre, vedere un videomaggio dedicato ai burattinai ed essere coinvolti da Assitej, con relative divertenti immagini, per l'appuntamento di IN-FORMA che si terrà a Lecce dal 25 al 27 settembre. Ultima ma non ultima una straordinaria visita guidata alla Reggia di Venaria.
Un'edizione dunque ricca e piena di stimoli.
20 come si è detto gli spettacoli, forse troppi, forse troppo diversificati tra loro e pochissimi dedicati in modo specifico all'infanzia, tra l'altro non sempre di alta qualità. Ma la "mission" di dare un ampio sguardo sulle nuove creazioni, provenienti dal Piemonte, con le loro svariate ricchezze e fragilità, è stata in definitiva raggiunta. Forse sarebbe utile alternare edizioni come questa, caratterizzate da questa doverosa particolarità, ad altre, con meno spettacoli, scelti in campo nazionale e mirati, nel bene e nel male, a un'idea più precisa e consona di infanzia.
Aiutati nell'impresa da Elena Scolari, Laura Bevione e dal giovanissimo Matteo Tamborrino con il punto di vista di un 'operatrice, Rossella Marchi, abbiamo come al solito compiuto un exursus su molti degli spettacoli visti, cercando di evidenziarne ricchezze e debolezze, almeno per noi, di un teatro che, nonostante tutto, per alcuni versi ci pare ancora vitale, se, quest'anno, gli Eolo Awards saranno consegnati a ben 4 spettacoli.
Data la grande quantità di spettacoli presenti non possiamo rendere conto di tutti, di due in particolare non abbiamo voluto: “Servizio Favole” di Tedacà nel quale, nonostante la grande energia profusa dalle brave Valentina Aicardi, Francesca Cassottana, Giulia Guida, Valentina Renna, nei 25 minuti che la nostra amichevole pazienza ci ha consentito di sopportare, abbiamo visto tutte le varie componenti per accalappiare il suo pubblico, comprese caccole, pipì e pupù che uno spettacolo dedicato ai bambini, almeno secondo noi, non dovrebbe possedere, e “ Clash” ,  che pur apprezzandolo per il tema proposto e per alcune soluzioni davvero non banali, per la grande stima che proviamo per Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci, ci piacerebbe  lasciarlo commentare  a chi lo ha amato, volendo noi invece rivederli impegnati in spettacoli, che avessero il medesimo respiro emozionale e la medesima forza espressiva del Progetto Favolosofia e del recente omaggio a Beethoven.
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Accade raramente, oggi, che due artisti si mettano insieme per comporre uno spettacolo dedicato all'infanzia, nel senso più intimo del termine. Il miracolo è accaduto per “Giannino e la pietra nella minestra”, nel quale due artisti di diversa generazione e provenienza, il veterano Guido Castiglia, pregevole narratore di Nonsoloteatro e il più giovane, valente musicista burattinaio Beppe Rizzo di Oltreilponte, si sono messi insieme, quasi per gioco, per narrare una bella storia di formazione.
I due ci narrano, scambiandosi con ironia e felicità la parola, accompagnati dalla fedele fisarmonica di Rizzo, la storia di Giannino, per sua natura, forse, bambino capriccioso, che viene, suo malgrado, mandato dalla grande città, dove vive con i genitori, dai nonni in campagna. E' un bambino assai capriccioso Giannino, inviso a tutti per i suoi scherzi fastidiosi, capace di ridurre la tavola in un campo di battaglia, così refrattario alle poche regole imposte da mamma e papà da essere mandato, come del resto successe al sottoscritto, persino dallo psicologo. Abituato ad essere circondato da giochi elettronici, TV, computer e play station, nella piccola fattoria di nonna Francesca e Nonno Pinuccio si trova catapultato in un mondo sconosciuto, simile a Marte, con regole assai difficili da accettare, protagonista di avventure per lui mirabolanti e prove che si rivelano assai difficili da digerire. Un mondo dove la gente si sveglia presto alla mattina, dove il cibo non si trova nel Frigo ma si raccoglie, aspettandolo pazientemente dalla terra, dove tutti gli animali hanno un nome, dove ci sono strani uomini di paglia che allontanano i corvi. Partendo da un famoso racconto della scrittrice francese Anaïs Vaugelade “Una zuppa di sasso”, Castiglia e Rizzo imbastiscono, per mezzo di una narrazione effervescente, di semplice comunicabilità, condita da filastrocche e cantilene, un piccolo,prezioso, racconto di formazione. Attraverso la proverbiale sapiente pazienza dei nonni, verrà impartita infatti al ragazzo una sonora lezione di civiltà e Giannino se ne ritornerà in città, più maturo, consapevole delle sue capacità, seppur, speriamo, con qualche capriccio rimastogli addosso, perchè, come ben sappiamo, un bambino senza capricci, non è un bambino, anche se immaginiamo che il nostro protagonista, lo sarà ancora per poco.
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Luigina Dagostino per la Fondazione TRG Onlus, questa volta in collaborazione con la Fondazione Bottari Lattes, in occasione del progetto PINOCCHIO di Monforte d'Alba, dopo Marco Polo, “ Il Giro del mondo in 80 giorni” e Don Chisciotte, continua la sua particolare rivisitazione dell'immaginario infantile, affrontando un classico senza tempo come Pinocchio, cavallo di battaglia di ogni compagnia di teatro ragazzi che si rispetti. Accompagnata dai fedelissimi, immarcescibili, ancora una volta, vitalissimi e cangianti Claudio Dughera, Daniel Lascar, Claudia Martore, crea uno spettacolo molto trash, sia nell'impianto visivo che nel ritmo prorompente e disarticolato con risultati di fresca e godibile partecipazione. Ma a nostro avviso, all'idea di un Pinocchio, non nato da un pezzo di legno, ma come moderno Frankenstein da impulsi elettrici, manca un vero e proprio azzardo drammaturgico preciso, che lascia le cose a metà, non sapendo scegliere spesso tra l'immaginario collodiano e quello più contemporaneo. Ne viene fuori un impasto di immagini e di situazioni, spesso disarmonico, che ci lascia un po' di amaro in bocca per un 'occasione in parte mancata di riconsegnare, in modo nuovo e profondo, la figura del più famoso burattino del mondo ai ragazzi e alle ragazze che vivono nel nostro mondo così contraddittorio.
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Giorgio Scaramuzzino, per la prima creazione dedicata all'infanzia che vede insieme il Teatro dell’Archivolto e Teatro Stabile di Genova, sceglie per “Razza di Italiani “, ancora una volta un tema di impronta civile, continuando il suo personale percorso in questa direzione per un teatro fortemente propositivo di temi “scottanti” da proporre alle giovani generazioni.
Scaramuzzino, questa volta, si mette in scena con tanto di parrucca per ricordare l’80esimo anniversario della ignominiosa promulgazione delle Leggi Razziali in Italia (1938).
L'intento è quello di capovolgere in tutti i sensi le informazioni distorte che spesso vengono fornite, soprattutto ai ragazzi, su quel periodo terribile della nostra storia, dove fu inculcato l'odio tra gente della stessa Patria, dove si certificò l'idea che esistesse il concetto di razza, e che per di più  ce ne fosse una eletta e una impura. Ed è per questo che lo spettacolo in modo anomalo, intelligentemente, parte da quando dovrebbe finire, dalle domande che i ragazzi di solito pongono all'attore, domande a volte ingenue, ma più spesso intelligenti e cariche di curiosità. Ed è da queste curiosità che l'artista intendere rimettere le cose a posto, rispondendo alle domande che egli stesso ha fornito ai ragazzi prima dello spettacolo, facendo, nel contempo, lui stesso delle domande, che spesso testimoniano non solo l'ignoranza dei ragazzi, ma la nostra stessa, su argomenti, ahimè ancora attuali.
E partendo da questi stimoli, Scaramuzzino, uscendo dalla realtà, si immerge nel teatro, e in modo come sempre appassionato narra di quel tempo, di quelle leggi, di come ahimè si comportarono gli italiani, quando il regime fascista le proclamò . E saranno gli oggetti, disseminati sul palco, a narrare le storie soprattutto di ragazzi e ragazze, che per colpa di quelle leggi andarono incontro alla morte. Scavando nella nostra storia, Giorgio Scaramuzzino affronta in modo non didascalico, non di maniera, il tema dell’antisemitismo, rivolgendosi in primis alle nuove generazioni, perchè sappiano imparare i dettami portanti della nostra Costituzione, rispettare le convinzioni degli altri e soprattutto comprendere come il Fascismo sia un 'idea da rigettare sempre e comunque.
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Un gradevolissimo viaggio nel mondo dei suoni e del canto, condito con garbo ed ironia ci hanno regalato al Festival in “ Allegro Cantabile” Marco Andorno, Francesco Micca, Lodovico Bordignon, Paola Bordignon, Sebastiano Amadio, Lucia Giordano di Faber Teater. “Buonasera. Questa sera non parliamo, cantiamo solo. Voi ascoltate e... ” E' questo l'assunto dell'intero spettacolo che spunta subito all'inizio dello spettacolo, affidato alle parole scritte su uno schermo dietro agli interpreti.
Ed infatti i nostri sei protagonisti non parleranno mai, consegnando i loro pensieri ogni volta allo schermo con parole che introducono gli spettatori in un piacevolissimo itinerario musicale dove essi stessi spesso diventeranno protagonisti. Un contenitore di musica cantata attraverso il suono, il ritmo, il timbro. Sei voci, sei attori-musicisti che non solo cantano, ma diventano interpreti di un repertorio trasversale, in cui trovano spazio canti di lavoro, serenate, composizioni originali e strutture di improvvisazione. Si parte da parole che si accompagnano felicemente alla musica in canzoni della tradizione italiana, per finire, piano piano, verso una musica, dove solo la phonè conta, viaggiando dal silenzio al rumore e poi al puro suono, per poi procedere dalla monodia sino alla polifonia. Insomma assistiamo ad uno spettacolo dove la drammaturgia non è formata dalle parole degli interpreti, ma piuttosto dal suono dei canta-attori, in un percorso ironico e appassinante, dove la phonè si incarna nel teatro, attraverso vari modi, e, dove il piano visivo e uditivo si intersecano, rendendo complice anche il pubblico. Un concerto dunque molto particolare, un contenitore di suoni che potrebbe variare a seconda del pubblico e del contesto, riempito di volta in volta di contenuti diversi. A noi infatti è piaciuta di più la prima parte, ma la seconda parte sarebbe utilissima agli studenti del Conservatorio.. e così via.
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Per ultimo, ma non ultimo, ricordiamo uno spettacolo di semplici burattini ”Gianduia e la morte nera” di Marco Grilli, che, con le figure costruite dal grande Natale Panaro, ritorna sul suo classico “Il medico di matrimoni” del 2008 per continuarne la storia e le avventure del suo eroe, Gianduia, che ha portato in carne ed ossa, felicemente, in questi due anni, per le piazze di Torino, ma non solo.Nella nuova avventura del burattino che incarna la tipica maschera torinese, Lui e lei si amano ancora. Lui è ancora Florindo, lei è ancora Clarice, ma al loro amore si oppone questa volta un nemico durissimo, il nemico più agguerrito di tutti, la Morte. La Morte si innamora di lui e pur di averlo crea sortilegi a sfavore della rivale, lui si dispera e così decide, come è ovvio di chiedere aiuto a Gianduja.
Tra astuzie e furbizie di ogni genere, Gianduja, spesso dialogando anche fuor di Baracca con il suo burattinaio, a suon di legnate, sconfiggerà, addirittura, tutta la genia della Morte. Marco Grilli ancora una volta in modo coinvolgente riporta in auge l'intramontabile Gianduia. nel solco della tradizione, in uno spettacolo pieno di ritmo per divertire grandi e piccini.
MARIO BIANCHI

FATE D'ACQUA - TEATRIMPERFETTI MARIA ELLERO
Le fate d'acqua sono le agane, spiriti dei fiumi e delle polle, tipiche del Friuli Venezia Giulia. Sono sfuggenti, descritte a volte come bellissime creature, che ammaliano e traggono nelle acque profonde il malcapitato che si lasci irretire oppure sono vecchie laide dalle lunghissime mammelle. Spesso si presentano con i piedi rovesciati all'indietro, oppure interamente coperte di pelo e setole. Figure stregate della mitologia acquatica.
Lo spettacolo di Teatrimperfetti (teatro danza) evoca questo mondo, in maniera elegante, fantasmatica, accennata, lo fa leggermente, come gli spruzzi che cadono qua e là sugli spettatori. La scenografia ha lo stile inconfondibile del richiamo alla natura senza tempo: rami secchi, grandi mastelli della tradizione, sedie di legno, alcune dipinte di bianco, un filo di lana rossa che si dipana tra i rami, sassolini...
Maria Ellero compare con un vestito bianco, anzi, di un bianco grezzo, fatto di veli sovrapposti, lunghi capelli sciolti, scalza. Sta a lungo su una sedia a lato della scena, strizzando stracci (bianchi), poi li consegna ai bambini della prima fila, posandoglieli sul capo, sempre lentamente, con una liturgia del gesto che risulta un poco insistita.
Bella la scelta di utilizzare il brano Schiarazule marazule, ballo friulano del 1500 col quale si invocava la pioggia.
C'è poco testo in Fate d'acqua, a beneficio della costruzione di un'atmosfera sognante, di una bolla d'acqua nella quale il suono e la vita si diffondono in modo soffuso, ondeggiante. La sostanza del racconto risulta però così rarefatta da sembrare evanescente, l'enfasi dei movimento coreografico supera la presenza delle parole, e le storie delle agane finiscono per diventare quasi marginali. Se queste fate della fantasia possono anche essere un pretesto per far riflettere i bambini su natura e importanza dell'elemento acqua, ci sembra però che questo intento debba essere più esplicito, tra un'evoluzione acquatica e l'altra.

IL PIANETA LO SALVO IO - TEATRO DELLA CADUTA

Abbasso la retorica! Niente paura per chi è allergico alla mistica dell'ecologia, alla correttezza che sfocia nel moralismo, alle lezioncine col ditino - sostenibile - alzato. Il pianeta lo salvo io è finalmente uno spettacolo che dà suggerimenti pratici per rispettare la natura ma divertendo e non annoiando. Francesco Giorda è abilissimo nel prendere in giro i bambini che coinvolge nei suoi giochi/esperimento, tratti dal libro di Jaquie Wines, dove si trovano 101 modi per salvare il pianeta. L'idea di Teatro della caduta è mostrare alcuni di questi modi, con prove e piccole gare: chi risparmia più acqua lavandosi i denti, come riutilizzare gli oggetti di plastica, come farsi una bibita in casa, ecc. Si forniscono anche ragionevoli pretesti per rimproverare bonariamente i genitori su imballaggi e sprechi vari, ottimo stratagemma per indurre i bambini a ricordare i comportamenti virtuosi.
Il protagonista che guida i bambini negli esperimenti è un clown, un po' giocoliere un po' aviatore, si potrebbe forse dare una motivazione teatrale più forte alle caratteristiche del personaggio, il che potrebbe aiutare anche a trovare raccordi più saldi tra uno sketch e l'altro, ovviando alla giustapposizione così un po' da "catalogo". 
Il pianeta lo salvo io è comunque uno spassoso manuale vivente di eco-ricette del quotidiano, costruito con ironia e spirito.


SOLDATO MULO VA ALLA GUERRA - TEATRO DEGLI ACERBI

È una cosa che non si racconta, e sarebbe invece una chiave per aprire la porta dell'interesse di ragazzi e bambini e farli appassionare alla Storia. La guerra, in questo caso la Grande Guerra (o come avrebbero detto i personaggi dello spettacolo: la guèra granda) fu combattuta non solo da uomini, molto spesso ragazzini, ma anche da animali: al fronte c'erano cavalli, cani, colombi, asini, buoi, a volte perfino elefanti e cammelli. Nella bella pubblicazione che Teatro degli Acerbi ha dedicato a Soldato mulo va alla guerra si trovano immagini molto curiose di cani in trincea con la maschera a gas, piccioni viaggiatori che trasportavano medicine, messaggi scritti ma anche macchine fotografiche imbragate al petto per prendere foto dall'alto con un timer in autoscatto (invenzione di inizio secolo del farmacista tedesco Julius Neubronner ). Incredibile. 
In questo lavoro vediamo la storia del soldato Giuseppe Zabert (realmente esistito): piemontese, figlio di mezzadri e seminarista, riceve la cartolina di precetto ed è costretto a partire da Asti per il fronte, la vocazione non lo risparmia. Massimo Barbero offre un'interpretazione generosa e vivida di quel soldato e dell'amicizia profonda con la sua mula, Margherita, che gli sarà compagna di guerra. Che cosa ha legato uomini e animali in quella terribile circostanza? Forse la possibilità di dare e ricevere calore, qualcuno cui affezionarsi, qualcuno da curare e di cui curarsi. Le faticose condizioni in trincea molto avvicinavano gli uomini agli animali, e questa comunanza "essenziale" manteneva accesa l'umanità, grazie a ciò che umano non era.
Il testo di Patrizia Camatel è scritto in una bella lingua, piacevole a sentirsi, curata e attenta nella scelta delle parole ma perfettamente coerente con il contesto ruvido, fangoso e scabro in cui Zabert si trova, un poco di dialetto, senza mai indugiare al localismo, similitudini dal sapore contadino, non banali: "Era l'artiglieria, che faceva il cielo scuro come quando arriva la tempesta che ti pela la vigna". Una drammaturgia fluida e ben ordinata. Dal punto di vista registico un paio di passaggi potrebbero forse essere alleggeriti in lunghezza, la scena della granata per esempio, così come manca ancora un po' di disinvoltura nell'occupare la scena, ma lo spettacolo è alle prime repliche e lo spazio dei laboratori alla Casa del Teatro è senza dubbio angusto.
La mula Ghitìn e il cane Brisk sono disegnati come personaggi, anzi: quasi come persone. È la loro inconsapevolezza a commuovere, il loro non sapere dove si trovano e perchè. Ma queste sono le domande che anche i soldati si fanno, quando l'assurdità del conflitto si fa sentire più dell'amor patrio e ci si tiene su a cognac e tabacco.


CANTO ERGO SUM - FONDAZIONE TRG

Un altro mondo, un altro spazio, un altro luogo dove non spiegare niente a nessuno, dove essere liberi di scegliere e di fare quello che si vuole. Un trasferimento così l'abbiamo sognato tutti, almeno una volta. 
In Canto ergo sum la protagonista (un'ironica e precisa Silvia Laniado) questo viaggio lo fa. Bip è un personaggio (femmina?) dall'aspetto buffo e un po' astratto, annoiata e risentita parte con la sua astronave, una lavatrice dal cui oblò osserva l'esterno come dalla finestra di una navicella. Senza accorgimenti particolari lo spettacolo riesce a creare un'atmosfera siderale, stranamente astrale, e questa sensazione è perfetta per rappresentare la solitudine e per descrivere un perimetro di autonomia, all'interno del quale l'attrice si costruisce un accompagnamento di suoni che da rumori ritmati diventano melodie, canti, la voce è la prova dell'esistenza di Bip, anche presso se stessa. La tecnica della "loop station" è ciò che consente a S. Laniado, in diretta, di duplicare la sua voce, di sovrapporre suoni registrati al momento, muovendo i comandi come fossero la consolle dell'astronave.
La tuta bianca dalle forme astronautiche e un piano luci dallo stile "fantascientifico" portano l'azione in una collocazione fluttuante, la solitudine è smussata nei suoi aspetti negativi dal carattere deciso di Bip, inoltre la regia di rita Pelusio accentua il lato comico di alcune situazioni, per esempio l'ossessione per la pizza, che ahinoi nello spazio non si può ordinare al telefono, pizza che da parola pronunciata per caso muta in suono che sarà base per una delle canzoni. 
Il tema della solitudine è trattato come un'occasione positiva per sperimentare che anche da soli ci si deve dare una disciplina e che la libertà è goduta appieno solo se condivisa. Ci pare un approccio originale. Meno originale risulta, alla lunga, l'utilizzo della tecnica sonora sopra descritta, che sorprende per buona parte del tempo ma diventa poi inevitabilmente prevedibile e quindi meccanica, dilatando inutilmente la durata dello spettacolo.

ROSA MA NON TROPPO - ONDA TEATRO

Cerchiamo di contestualizzare questa riflessione, complessa e non esauribile in un articolo, partendo dal testo fonte, per circostanziare ciò che diremo sul lavoro di Onda Teatro.
Storie della buonanotte per bambine ribelli, il super best seller di Francesca Cavallo ed Elena Favilli (tanto best da esserne già uscito un secondo volume: Storie della buonanotte per bambine ribelli 2), è una raccolta (a cento a cento) di ritratti, piuttosto sbrigativi, di donne, scelte con criteri assai vari: si va da Sophia Loren a Mary Shelley, da Nefertiti a Peggy Guggenheim, da Beyoncé a Bebe Vio, da Serena Williams a Marie Curie... Donne famose, oppure coraggiose, di successo oppure geniali ma ignote, sfortunate ma determinate, oppure ancora generose ed eroiche. In sostanza basta che siano donne. E questo è sia il problema del libro, sia la debolezza che ne deriva nello spettacolo Rosa ma non troppo.
Sembra che pubblicazioni e spettacoli come questi (ci riferiamo anche a Malala di Viartisti) possano rendere giustizia a secoli di trascuratezza verso le donne, sovvertire un'inveterata abitudine a non considerare pari le imprese compiute da uomini - sempre di maggior fulgore - rispetto alle gesta, sportive, storiche o scientifiche realizzate da donne. Sembra. Ma qual è invece il rischio di raccontare le vite di donne grandi se lo si fa solo in quanto donne? Il rischio è la riserva. Il recinto rosa, appunto, in cui le donne finiscono per mettersi perché si sappia di loro. E per di più sono quasi sempre donne a raccontare le donne. 
Lo spettacolo di Francesca Guglielmino, Silvia Elena Montagnini e Bobo Nigrone con le brave Claudia Appiano e Silvia Elena Montagnini per la regia di Bobo Nigrone, raccoglie 4 storie di donne tratte dal libro citato: la genetista americana Nettie Stevens che scoprì la differenza tra i cromosomi X e Y (e quindi perché si nasce maschi o femmine) studiando le larve, l'infermiera polacca Irena Sendlerova che salvò 2.500 bambini ebrei, la nuotatrice siriana Yusra Mardini arrivata fortunosamente in Europa da Damasco e l'astronauta Samanta Cristoforetti.
Rosa ma non troppo comincia con l'attesa: due donne con valigia sono all'aeroporto e aspettano il loro volo in ritardo. L'una (Appiano) è ansiosa, agitata, si preoccupa molto per i cumulonembi nel cielo, l'altra (Montagnini) è sicura e decisa ma annoiata, è una che si stufa in fretta. Per ingannare l'attesa, chiaccherano, e la loro conversazione si costruisce offrendo ganci al racconto delle quattro biografie, le due attrici si spostano nell'altra metà del palco, dove in un mobile con ante e cassetti si troveranno oggetti simbolo, uno per ogni donna. Una soluzione semplice ma un po' telefonata. Scopriremo alla fine che le due donne sono bibliotecarie di un piccolo paese e stanno per partire per un viaggio, anche simbolico, che toccherà le patrie delle loro eroine conosciute su carta.
Al di là dell'eterogeneità delle storie di ognuna delle donne e del diverso "peso" delle loro imprese, ci sembra che l'idea delle bibliotecarie insoddisfatte, in partenza per crescere, non sia particolarmente avvincente. Le vite delle donne scelte, se narrate in maniera approfondita e appassionata, si sostengono già da sè. Se in Biciclette con le ali Onda Teatro aveva saputo far volare il pubblico con il sogno aereo dei fratelli Wright, qui le avventure non raggiungono altrettanta altitudine. 
Se il senso è rivendicare che coraggio e cervello sono degli uomini quanto delle donne, non separiamoli, per dio! Grandi donne hanno faticato ancora di più per affermarsi e per guadagnare rispetto e considerazione? Proprio per questo ci sembra che vederle, ancora oggi, raccolte in un album rosa come se la loro grandezza potesse emergere solo tra altre donne, possa essere riduttivo.
Siamo certi che due brave attrici e un regista attento sapranno infondere maggior "ribellione" a queste storie esemplari.
ELENA SCOLARI


STRANIERO DUE VOLTE/TEATRO DEL BURATTO

Alessio, sua sorella Ludovica e il Crudo, il suo migliore amico(Andrea Panigatti,Marta Mungo, Gabriele Bajo) sono tre adolescenti di oggi
, Vivono in una grande città, a scuola si annoiano e dunque ogni tanto “bigiano” e vanno a bighellonare in periferia, fra edifici dismessi ovvero in costruzione – come suggerisce la semplice ma efficace scenografia, un’impalcatura di metallo opaco.
Alessio è stato bocciato ma sogna di diventare ingegnere navale così da potere vivere al mare; Ludovica è intelligente e insicura e spesso si ritrova ad essere quello che gli altri si aspettano che sia; il Crudo deve il suo soprannome alla sua origine ma essere nato in Italia da una famiglia curda pone non pochi problemi di identità.
Tre ragazzi che si sentono, per motivi diversi, “stranieri”, a tratti anche verso se stessi. Estranei alla propria famiglia, al mondo che li circonda, persino ai loro stessi modi di fare e alle parole pronunciate in particolari situazioni, magari per non rivelare il proprio io non omologato.
Un’estraneità simbolicamente esemplificata dalla triste vicenda di Piramo e Tisbe, che Ludovica e i suoi compagni del corso di teatro metteranno in scena a fine anno. Il muro che separa i due innamorati è figura di quello – invisibile ma invalicabile – che separa i ragazzi da genitori e adulti ma, in alcuni frangenti, anche dai propri coetanei.
Una solida parete nella quale, nondimeno, è nascosta una fessura, uno spiraglio attraverso il quale il Crudo finalmente rivela il proprio amore a Ludovica, che ricambia felice. Un innamoramento che suscita la prevedibile gelosia di Alessio, che si sente in qualche modo tradito dall’amico…
Ma l’amore non basta al Crudo, che ha deciso di emanciparsi dalla propria famiglia e vorrebbe che Ludovica lo seguisse ma l’amore non basta neanche a lei, che sceglie di restare dov’è, forte però di una nuova consapevolezza di sé. E la separazione, allora, non è una tragedia bensì il necessario passo in avanti verso la maturità.
Una storia di crescita e di affrancamento da vincoli e stereotipi, di litigate e di risate, di baci e di schiaffi, narrata con spigliatezza e coinvolgimento, scegliendo la prospettiva dell’adolescente anziché quella paternalistica dell’adulto.
L’autrice e regista Renata Coluccini racconta gli adolescenti così come realmente sono, senza tentare di spiegarli né, tantomeno, di giudicarli ma ponendo uno specchio di fronte a loro, affinché, vedendosi riflessi, possano imparare a comprendersi e ad accettarsi.
Non c’è accondiscendenza né ci si accontenta di facili strizzatine d’occhio ma si sceglie di portare sul palcoscenico la schizofrenica e impaziente incertezza dell’adolescenza. Non si pronunciano sentenze né si offrono consigli ma si concede la libertà di sbagliare e di imparare dai propri errori. Con la musica, con una risata, con una lacrima si lascia che gli adolescenti parlino di sé e si incontrino, così da sentirsi un po’ meno strani/stranieri…

MALALA /VIARTISTI

Portare su un palcoscenico la vicenda umana e la storia pubblica di un personaggio universalmente noto è impresa ardua e lo è ancora di più quando si sceglie di realizzare uno spettacolo che possa rivolgersi anche – o soprattutto? – alla nuova generazione. Il didascalismo è sempre in agguato così come l’agiografia – trattandosi nel caso in questione di una ragazza che a diciotto anni aveva già vissuto esperienze tanto traumatiche così da costringerla a una maturità che non tutti gli adulti possiedono.
Paletti di uno slalom teatrale nel quale la torinese Raffaella Tomellini si lancia con passione, riuscendo a tratti a scansarli con agilità ma cedendo in altri alla tentazione di abbracciarli. Ci spieghiamo: palesando intelligenza drammaturgica, l’artista declina l’argomento diritto all’istruzione – per difendere il quale la giovane pakistana Malala ha rischiato la vita e vinto il premio Nobel per la pace – secondo la propria personale esperienza scolastica, esordendo con una frenetica danza su We don’t need no education.
Lo scarso rendimento alle scuole medie e poi alle superiori, dovuto evidentemente alla scarsa appetibilità dei programmi scolastici, è acceso da lampi di passione soltanto nel corso di singole lezioni – una, indimenticabile, sulla fisica degli arcobaleni -, e si trasforma in coinvolta partecipazione durante gli anni della scuola di teatro.
Il racconto di sé è schietto e sincero, evita accuratamente manierismi e facili ammiccamenti al pubblico ed è, appunto, il filo drammaturgico che più convince: lo stupore e l’autoironia sono genuini e gli interrogativi su forme e finalità dell’istruzione nel nostro paese pregnanti e urgenti. Quanto ciò che viene insegnato ha realmente a che fare con le vite degli studenti e, soprattutto, quanto fa davvero la scuola perché la scienza, la letteratura, la matematica riescano ad affascinare un bambino ovvero un adolescente?
Domande che Tomellini pone implicitamente agli spettatori, poiché il diritto all’istruzione deve essere anche diritto a vedere nascere in sé la passione per la conoscenza e per l’arte – magari per il teatro, come successo a Raffaella.
Una drammaturgia che, partendo dal personale, sa porre con sorridente decisione questioni generali ma che, purtroppo, non riesce ad amalgamarsi con il racconto dell’esperienza di Malala – fra l’altro oramai nota – e con la riproposta del suo celebre slogan – one child, one teacher, one book and one pen, can change the world – che qui diventa una sorta di rap danzato, certo coinvolgente e divertente ma nulla di più.
Nelle parti dello spettacolo esplicitamente dedicati a Malala – ne sentiamo anche la voce registrata mentre sullo schermo sul fondo del palco scorre la traduzione del suo fervente discorso – Tomellini appare meno sicura tanto da ricorrere al certo rincuorante didascalismo e ad appoggiarsi a solidi ma davvero troppo facili punti di sostegno – Storie della buonanotte per bambine ribelli – ovvero ad allestire sipari di sicuro impatto emotivo - i fiori, la musica – che, nondimeno, nulla aggiungono a quanto della coraggiosa ragazza è risaputo.
Lo spettacolo avrebbe avuto forza e urgenza maggiori se la generosità e la passione di Raffaella Tomellini si fossero tramutati in arditezza, quella di approfondire la propria vicenda biografica e intrecciarla con maggiore evidenza a quella di Malala, così da esplorare i differenti lati di quel prisma che è il diritto all’istruzione e, anche, da testimoniare di essere stata contagiata almeno da una goccia dell’irraggiungibile coraggio della giovane pakistana.
LAURA BEVIONE




LA MONTAGNA DEI SETTE VETRI | Tecnologia Filosofica, Refrain, Unione Musicale


Un teatro multimediale e a colori, quello proposto da Thuline Andreoni e Marco Amistadi. La loro “Montagna dei sette vetri”, tratta dal folklore piemontese, è una commistione assai dilettevole di linguaggi differenti: arte visuale, musica e parola. Essa interagiscono all'interno di un bislacco laboratorio, a metà tra il centro di ricerche genetiche e la camera oscura d'un fotografo, in cui campeggiano lampade da tavolo, elmetti da lavoro e coni segnaletici. I due attori-doppiatori-narratori indossano abiti da operai: T-shirt colorata con al di sopra una salopette scura. «Tradizione e innovazione – scrive Amistadi nelle sue Note – qui si riuniscono: tradizione nella scelta stessa di raccontare una fiaba, nel testo in rima, nella presenza di canto e strumenti acustici; innovazione nell'utilizzo di videoproiezioni e strumenti musicali elettronici».

La vicenda – rappresentata grazie all'uso di fondali colorati e dei bei figurini di Simona Balma Mion – è quella di un simpatico principino che, sostando nei pressi di un laghetto per rifocillarsi dalle lunghe cavalcate, intravede tre fate, le quali – dismesse le proprie alate vesti di pennuti – giocano fra i guizzi d'acqua. Preso da fulmineo innamoramento per una di loro, il principe sottrae la sua piuma magica, sicché la bella giovane possa rimanere per sempre con lui. La conduce al proprio castello e i due, come da tradizione, si sposano, venendo allietati dalla nascita di un erede. Il tempo passa e la guerra incombe: il principe è costretto ad arruolarsi e, dopo aver sommerso la moglie di comandi (e di chiavi!), parte, raccomandandole tuttavia di non aprire mai un certo scrigno che si trova in una stanza remota del palazzo (in pieno stile Barbablù). Ma la fatina è molto triste e si annoia: così, dopo aver provato con il figlioletto qualsiasi gioco immaginabile, decide di trasgredire i divieti coniugali. Nel piccolo forziere troverà niente meno che la sua piuma magica! Caricato il bambino sotto l'ala, la fata riassume le antiche sembianze animali e finalmente può ricongiungersi con le proprie sorelle in cima all'eponima montagna dei sette vetri. Il principe, nel frattempo, ritorna dalla guerra, ma al castello non trova ad attenderlo né la moglie né il figlio. Compreso l'accaduto, si mette in cerca dell'amata: molte le traversie che dovrà superare prima di poterla riabbracciare. Tra queste, la tradizionale spartizione del cinghiale abbattuto tra un leone, una formica, un'aquila e un cane, i quali – lieti di essere stati aiutati dal saggio sovrano che ha elaborato una soluzione pacifica per dirimere i conflitti – lo ricompensano elargendo alcuni doni magici.

L'opera è allietata da molti sottofondi musicali, realizzati dal vivo da Marco Amistadi servendosi di clarinetto, tastiera, latte dell'olio e stantuffi. Nel frattempo la “burattinaia” Andreoni fa interagire con cura, sotto la videocamera, i protagonisti della fiaba. Sicuramente stimolante per la fantasia dei bambini, quest'esperienza – più che vero “teatro d'immagine” – è una rivisitazione live del cartone animato all'italiana: quello dai toni un po' naïf ma di certo formativo per l'infanzia.

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GIROTONDO DEL BOSCO. Racconti di piuma, di pelo e di foglia | La Piccionaia

Il tourbillon silvestre e onirico della Piccionaia, centro di produzione vicentino, da sempre impegnato nella creazione artistica per le giovani generazioni, si ispira con libertà ad alcuni importanti testi letterari (e in questo sta il suo grande merito): da Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati alle Storie del bosco antico di Mauro Corona, passando per Uomini boschi e api di Mario Rigoni Stern e Il linguaggio degli uccelli di Farid al-Din 'Attar. Galeotto fu un laboratorio, tenutosi ormai diversi mesi fa con un gruppo di giovanissimi virgulti tra i 6 ai 10 anni. Dopo aver letto insieme agli attori i quattro autori succitati, bimbi e cast avrebbero «giocato gesti e narrazioni, suoni e visioni, scegliendo ognuno una propria guida animale. Animali in disparte, che di solito non sono protagonisti di film di cassetta, animale del bosco. Ognuno di loro custodisce ed accompagna una trasformazione».

Lo spettacolo tuttavia, trincerato nella “vecchia maniera” del teatro di narrazione, appare spesso gravato, invero, secondo noi, da alcune lungaggini e prolissità, mai però disarmoniche (complice anche il soave movimento di Valentina Dal Mas), ma comunque – nel complesso – assai ripetitive. Girotondo del Bosco ha però il pregio di coniugare linguaggi differenti (immagine, narrazione, danza, teatro fisico) che compie in maniera pacata e mai eclatante. Al centro vi sono tre figure antropomorfe: una gazza ragazza, un genio degli alberi e un vento dispettoso, tutti in abiti simil-tirolesi, il cui compito è rievocare per il proprio assorto uditorio una serie di vicende marginali, che vedono al centro animali “periferici”, ma non per questo meno desiderosi di raccontare e di raccontarsi. Se gli uccelli di Virginia Woolf parlavano in greco, quelli del trio Presotto-Balbo-Dal Mas si servono di un idioma assorto ed estatico, che si muove in un palcoscenico solo apparentemente spoglio. E il merlo (modello d'un pittore armato di tavolozza in cui si adombra il grande Tiziano) si arricchisce di un basco da francesina. «Ecco allora il ghiro con la sua paura della solitudine, il riccio che imparerà a proteggersi senza perdere la sua tenerezza, la gazza che scoprirà che chi vuol bene non imprigiona il suo amore, la lumaca che troverà il modo di non arrivare sempre in ritardo. E insieme a loro […] il picchio e la puzzola in una sorta di vero e proprio girotondo». Sette storie, sette frammenti di vita animale.
A fare da cornice a questo quadretto bucolico, alcuni – pochi – oggetti di scena (come bicchieri e ceste di vimini), un velo bianco finemente ricamato che viene agitato delicatamente e, alle spalle dei protagonisti, una struttura a metà tra la montagna e le fronde di un albero. Ben congeniati i giochi luministici (con cromie che trascolorano dal blu al verde) e sonori (il Leitmotiv musicale è una sorta di mantra elettronico).
MATTEO TAMBORRINO

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IL PUNTO DI VISTA DELL'OPERATORE

Mis-(s)-Education FRANCESCANETTO
Non è facile inquadrare un lavoro come quello di Francesca Netto. La ragione di questa difficoltà pensiamo sia da rintracciare probabilmente in un errore di fondo: lo spettacolo è stato presentato, a nostro avviso, nel contesto sbagliato. Mis-(s)-Education non è uno spettacolo per ragazzi. Viene presentato come spettacolo fruibile dai 16 anni ma il linguaggio utilizzato e la riflessione alla quale vorrebbe portare non sono quelli rivolti ad un pubblico di adolescenti. Questo essere fuori contesto quindi rende ancora più complessa quella visione libera e completamente non finalizzata che invece è il presupposto per assistere a questo spettacolo. Francesca Netto ci accompagna nei deliri di un’insegnante, costretta dal suo ruolo istituzionale a trasmettere e veicolare una cultura che ritiene ormai sappia solo di morte, partendo dall’incontro/scontro con UFO (come ci racconta si firmasse Ugo Foscolo) e la sua famosa opera “Dei sepolcri” distruggendo e facendo un vero e proprio atto d’accusa nei confronti dell’autore sia come artista che come uomo. Questo è il punto di partenza di un’ora ininterrotta di deliri che in alcuni momenti chiamano in causa il pubblico anche attivamente, portando a stonati e sconclusionati siparietti che ripercorrono la relazione tra l’insegnante e i suoi studenti e che destabilizzano completamente lo spettatore, anche il più seriamente motivato. Il tentativo da parte del pubblico è quello di provare inutilmente per tutta la durata dello spettacolo a rintracciare un appiglio drammaturgico (che però non arriva) che gli permetta di seguire il filo della restituzione scenica. Questo getta la platea in una situazione di disagio che si alterna a momenti di stanchezza in cui lo spettatore, ormai travolto dal nonsense del soliloquio, rimane impotente sulla sedia. Si potrebbe obbiettare che forse proprio lì la nostra attrice ci volesse portare. Forse. Ma crediamo che la responsabilità di questa incomprensione non sia nell’interpretazione, davvero notevole, della brava attrice ma bensì soprattutto drammaturgica: sembra quasi che ci sia una scelta precisa del testo di non prevedere una mediazione tra i tumulti interiori dell’insegnante e il pubblico a cui vuole portarli. Questo conduce al risultato di vedere semplicemente un’attrice/insegnante in preda ad un atto di liberazione bulimica, rovesciare sul palco in poco tempo tantissime parole, concetti e voci interiori senza però volere né riuscire davvero a stabilire un contatto con il pubblico.
L’attrice è molto brava nell’interpretare un’insegnante in completa crisi e dibattito interiore ma ci sembra che sia mancato proprio il passaggio di un’elaborazione drammaturgica che rendesse comunicabile questo disagio. Il testo, invece di riuscire a creare una connessione con lo spettatore che gli permettesse di essere ascoltato, ha costruito un muro che non gli ha consentito di giungere a destinazione compromettendo così anche l’interessante punto di vista che voleva raccontare. Una maggiore attenzione drammaturgica avrebbe potuto rendere il lavoro perfetto per essere recepito.


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(Una) Regina QUINTOEQULIBRIO
Dopo il buon risultato ottenuto nel Premio Scenario Infanzia e lo studio presentato alla fine di marzo nel bel festival Teatro Fra Le Generazioni di Castelfiorentino, grande era la curiosità di vedere il lavoro finito della Compagnia Quintoequilibrio. La stesura finale del lavoro nel complesso ha convinto per la cura della messa in scena e la credibilità delle attrici pur conservando alcune perplessità registiche e drammaturgiche che già avevamo ravvisato nella presentazione dello studio e che, a nostro avviso, non sono state pienamente risolte. Regina e la sorella si trovano ad una parata in veste di componenti della banda: l’una suona i piatti e, Regina, il triangolo. Ma mentre la sorella suona i piatti con grande trasporto, Regina non ha nessuna voglia di suonare il triangolo che si capisce non essere proprio la sua passione. Dopo varie insistenze Regina si decide a partecipare alla manifestazione ma all’improvviso un temporale interrompe bruscamente tutti i propositi e le due ragazze si ritrovano a dover passare il tempo non potendo uscire. Decidono così di raccontarsi una storia, quella di Regina e di sua madre/poltrona che la tiene in gabbia come l’uccellino che porta sopra la testa imprigionato in una bellissima corona/gabbia. La madre già ne ha deciso il destino all’atto della nascita mettendole quel nome: Regina. La storia si snoda, in modo un po’ farraginoso per la verità, all’interno di questo rapporto di sottomissione tra Regina e la madre profondamente egocentrica che non le permette di fare nulla se non continuare a mettere a posto i fili dei gomitoli di lana che lei stessa lavora e con i quali tiene legata la figlia. Regina accudisce questa madre in fin dei conti fragile, rinunciando al futuro che in realtà sogna e che è custodito da una mappa che lei cuce di nascosto quando la madre dorme e che nasconde nel fondo del cesto dei gomitoli. Quando la madre muore sarà Regina a regnare e, vista l’infanzia infelice, sarà una sovrana cattiva e disumana sia con il suo popolo che con la figlia alla quale vieta di giocare con il cesto dei gomitoli. Ma sarà la disobbedienza della figlia che porterà nuovamente alla luce la mappa e quindi tutti i desideri della regina che, non avendo avuto a suo tempo il coraggio di imporre alla madre le sue aspirazioni, non sogna più. Ed eccoci di ritorno alla storia iniziale delle due sorelle: il racconto è stato per loro un percorso di consapevolezza che le porta a capire l’importanza di seguire i propri sogni e di avere il coraggio di raccontare a chi ci sta accanto ciò che davvero si desidera. E’ dunque tempo che Regina dica alla madre che il triangolo non è lo strumento che lei desidera suonare. Ci è piaciuta molto la cura degli oggetti di scena e la caratterizzazione dei personaggi. Si ravvisa tutta la cura, lo studio e l’attenzione che Stefania Ventura e Gisella Vitrano gli hanno dato. Abbiamo qualche perplessità su alcuni nodi drammaturgici: le due storie, quella delle sorelle e quella delle regine e delle figlie, non ci sembrano perfettamente raccordate, inoltre mentre la storia regale ci convince appieno nella sua resa, quella delle due sorelle musiciste ci sembra molto più debole. Non siamo d’accordo inoltre sul target d’età al quale lo spettacolo è dedicato: 6 anni infatti ci sembrano davvero troppo pochi perché il concetto di autonomia e dell’importanza di avere il coraggio di seguire i propri desideri possano trovare una corrispondenza. Il tema trattato infatti sarebbe molto più idoneo ad un pubblico di adolescenti (come ci sembrano infatti le due protagoniste dello spettacolo) che si trovano spesso a vivere situazioni di profondo disagio per seguire un futuro non proprio.
ROSSELLA MARCHI /IL BRANCACCINO- ROMA

IL RESOCONTO FOTOGRAFICO DEL FESTIVAL E' DI MASSIMO BERTONI