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Eolo
recensioni
MAGGIO ALL'INFANZIA






MAGGIO ALL'INFANZIA '


Premio Scenario 2007 Bella l’idea di Cecilia Cangelli, del Teatro Kismet , di immettere nel già robusto cartellone di Maggio all’Infanzia anche gli spettacoli vincitori e finalisti del premio Scenario : che si erano già visti a Zona Franca, a Parma, ancora allo stadio progettuale, e altri qua e là in diverse vetrine regionali (a Lugano, a Pavia), ma mai tutti insieme e nella forma compiuta di spettacolo. Bella idea, ripeto, perché ha consentito una visione globale dei diversi lavori e una valutazione complessiva dell’esperienza. Una prima osservazione : la giuria selezionatrice dei progetti vincitori e di quelli finalisti ha lavorato con molta intelligenza, poiché è riuscita a selezionare un ventaglio di proposte indicative di tendenze diverse, il cui livello complessivo è decisamente interessante.
Un tratto comune tra i diversi lavori è quello che evidenzia - in alcuni più, in altri meno - la difficoltà di dare una compiuta forma spettacolare di durata canonica a un nucleo iniziale che condensava in 20 minuti la poetica del gruppo . In quest’operazione di sviluppo, alcuni lavori hanno guadagnato - come quello di Maria Ellero, per esempio - altri hanno perso, come quello del Circomistico, che ha stemperato nel tempo lungo un’ironia e una freschezza che risultavano più vive nel saggio iniziale
E ancora: in nessuna delle tematiche presenti nei vari spettacoli è presente la fiaba . La fiaba classica, voglio dire, quella attinta dal folclore popolare, che nel Teatro/Ragazzi degli scorsi decenni ha costituito la chiave privilegiata - talvolta esclusiva - d’accesso al mondo dell’infanzia : come un deposito dell’immaginario collettivo che, complice un innamoramento folgorante per Bettelheim, ha popolato la scena di Cappuccetti Rossi, di Biancanevi, di Pollicini, di Belle Addormentate. Se è vero che ogni produzione teatrale contiene in sé l’immagine dello spettatore-modello a cui si rivolge, le immagini di bambino che si affacciano dai nuovi spettacoli di Scenario Infanzia sono quelle di uno spettatore interessato a forme di racconto non tradizionale, che propongono percorsi iniziatici (Giuditta), esplorano temi affettivi ( Sono qui), attingono a plot della narrativa letteraria ( Chiamiamo a testimoniare il barone di Munchausen e Quando un leone bussò alla porta) affrontano i temi del teatro socialee ( Panoptikon Frankestein), rivisitano il dramma didattico di brechtiana memoria ( Taniko,La favola della Grande legge) .
Fa Mulan della Compagnia Immobile Paziente esula da qualunque delle precedenti categorie, in quanto la versione presentata a Maggio all’Infanzia è risultata frutto di un equivoco che ha completamente snaturato il progetto iniziale.
Tutti gli altri spettacoli sopra citati, comunque, sembrano accomunati dalla sotterranea vocazione a uno slittamento dal recinto concluso di un Teatro/Ragazzi verso le forme di un Teatro Popolare d’arte che accomuni nel suo pubblico adulti e bambini. E questo è un segnale sul quale è opportuno riflettere, perché emerge negli ultimi tempi anche da alcune tra le più riuscite produzioni delle Compagnie tradizionali.

. Ma vediamo le opere in dettaglio: Sono qui - progetto di teatro/danza/immagine multimediale di Maria Ellero, Compagnia Teatrimperfetti, (menzione speciale a Scenario Infanzia) - è forse , a mio parere, lo spettacolo che ha raggiunto il maggior livello di definizione artistica. Interpretato da Maria Ellero e dalla piccola Cecilia Cavalcoli, di dieci anni, porta sulla scena, attraverso il linguaggio della danza, le difficoltà, i conflitti, gli abbandoni, le tenerezze della relazione madre figlia: due figure femminili che si cercano e si respingono, ciascuna alla ricerca del proprio ruolo, divise fra reciproche identificazioni e orgogliose affermazione d’identita. Sole, tutt’e due: ma capaci di trovare nella loro profonda esigenza d’ affetto la strada per arrivare a un incontro e a una comunicazione. Il linguaggio dei corpi libera questo quadro emotivo da ogni stereotipia, gli conferisce leggerezza e intensità insieme. E’ uno spettacolo bello e intenso da far vedere a bambini dagli otto anni in su e ai loro genitori.
Anche Giuditta di Samir Oursana , vincitore ex- aequo del premio Scenario (distribuzione Teatro delle Briciole) si affida tutto a un linguaggio corporeo, che in questo caso non è una vera e propria danza, ma una fusione originalissima di gesti, movimenti e posture create dal protagonista, il marocchino Samir Oursana. Chi è Giuditta? Non un personaggio femminile, come vorrebbe il nome (con rimandi biblici tra l’altro non pertinenti al contesto), ma piuttosto una creatura indeterminata , un “essere” che si affaccia alla vita con tutte le sue potenzialità: esplora, osserva, cresce, inciampa negli ostacoli, ma si riprende e prosegue con energia inesausta il suo percorso verso la piena consapevolezza di sé. Questo spettacolo “sulla dolorosa gioia di crescere” trova i suoi momenti migliori nella creazione di immagini corporee in uno spazio rarefatto, privo di qualunque riferimento temporale, e nell’incontro significante tra corpo e oggetti simbolici - un uovo, una mela, un innaffiatoio - vissuti con l’assoluto stupore delle prime scoperte infantili. Una misteriosa figura mascherata (interpretata da Chiara Savoia) avvolta in abiti africani - una nutrice? una madre ? un personaggio/guida ? - crea suggestive sonorità dal vivo e svolge una funzione di sostegno nel percorso iniziatico; ma il suo rapporto con la parola non appare pienamente risolto sul piano espressivo là dove si affida a monologhi che rimandano a significati troppo complessi . La forte presenza scenica di Oursana catalizza innegabilmente lo sguardo dello spettatore : piccino (nell’età della Materna e primo ciclo), e/o adulto che sia.. Però richiede, a mio parere, un’ulteriore elaborazione per portare a forma compiuta le sue notevoli potenzialità.
L’altro vincitore ex aequo, Taniko,del Libera Scena Ensemble (regia di Antonio Calone ) si colloca su un territorio nettamente diverso: sei attori in scena si prodigano generosamente per tutta la durata dello spettacolo con impetuosa energia partenopea per rappresentare - forse con qualche eccesso di sottolineatura comica nella caratterizzazione dei personaggi - un antico dramma giapponese del 15° secolo, in cui agiscono uomini e dei. Le rigide regole della tradizione si contrappongono in modo apparentemente inconciliabile con le esigenze individuali e sociali: finchè ad affrontare il dilemma non vengono invitati direttamente gli spettatori perché suggeriscano la soluzione più ragionevole. Questa riproposizione di teatro-forum che riecheggia anche il dramma didattico brechtiano si svolge senza nessuna pesantezza didascalica: tutto si configura come un grande gioco, in cui la scena a pianta centrale accresce il tasso di partecipazione e di vivacità.
Chiamiamo a testimoniare il Barone di Munchausen, progetto finalista del milanese gruppo Fuori Quattro (Associazione culturale Controscena), usa una molteplicità di linguaggi ( narrazione, burattini, teatro d’attore) per dar vita al mondo paradossale del famoso personaggio immortalato da Rudolf Raspe. Non si tratta però di una rivisitazione puntuale, perché qui la storia mette al centro dell’azione il personaggio di Mario Baldassarre, un tempo fidato aiutante del Barone e ora bidello in una scuola, di cui disgraziatamente ha perso le chiavi. A salvare il malcapitato dalla condanna capitale, arriva fortunosamente il Barone che non esita a recarsi sulla Luna per recuperare le chiavi smarrite. Tra assurde avventure e pirotecniche invenzioni, lo spettacolo mette un bel po’ di carne al fuoco e talvolta spinge a una recitazione un po’ troppo caricata il personaggi di contorno ( due avvocatesse che si ostinano a difendere la concretezza e il buon senso). Una citazione particolare merita la scenografia di Lucio Pergola , che innalza al centro dello spazio scenico una costruzione polivalente: che è via via palco con il capestro destinato al povero bidello , il casotto da cui si affacciano i burattini e l’ ambiente che ospita il vorticoso andirivieni dei personaggi.
Anche il finalista Quando un leone bussò alla porta del Cicomistico ( regia e drammaturgia di Caterina Bartolettio e Giovanni Dispensa) prende ispirazione da un racconto illustrato edito alcuni fa da Castalia, “Lara e il leone cattivo” , che racconta di come la gelosia nei confronti del neonato fratellino porti la bimba protagonista a crearsi un amico immaginario sui generis, un leone appunto, che assume il ruolo di consolatore e compagno di giochi, ma anche esprime indirettamente tutta l’aggressività repressa nei confronti del nuovo venuto.
Il tema è intrigante e il testo drammatico lo elabora con garbo e scorrevolezza: peccato che poi nella rappresentazione si scivoli verso una formula superficiale, che accentua la tipizzazione comica dei personaggi, usando gli ingredienti più facili di una situation comedy quasi da cartoni animati disneyani. Tutto nel solco della tradizione più collaudata, senza nessun azzardo nel nuovo, come sarebbe lecito aspettarsi da un gruppo giovane e appassionato come questo.
Tutto il contrario si verifica nell’altro spettacolo finalista, Panoptikon Frankestein ( ideazione di Valeria Raimondi e Enrico Castellani) che si rivolge però a spettatori dai 14 anni in su: questo è uno spettacolo ruvido e dissacrante, che cerca “un’estetica del reale” nella riproposizione di due mondi paralleli, una discoteca e un carcere. Il gruppo Babilonia Teatri, che lo produce, svolge attività sociale nel carcere di prima accoglienza di Verona; e da questa sua esperienza ricava frammenti di testo e testimonianze di vita che riversa in una scena improntata a un accentuato dinamismo, ricca di energia comunicativa. La abitano tre attori e una ex detenuta di colore che racconta se stessa: una presenza pensosa e dolente, molto forte nella sua dichiarata assenza di ogni artificio scenico.
La disperata aspirazione alla libertà, la violenza dell’esclusione, l’impotente dipendenza dalla droga sono espressi con parole gridate che non tollerano indifferenza nello spettatore: è la proposta di un “teatro pop” che traduce la realtà sulla scena senza mediazioni o filtri di sorta.
Mafra Gagliardi


Gli altri spettacoli

La decima edizione del “Maggio all’infanzia” ha visto il gradito ritorno in Puglia, dopo sette anni, di Mauro Maggioni. Maggioni co-regista dello spettacolo ha proposto, sotto le sigle O Thiasos e Ibis Teatro, una versione molto particolare del “Principe porcaio” che lo vede anche protagonista accanto alle brave Cristina Baruffi e Francesca Ferri. Uno spettacolo fluido e divertente, pieno di ammiccamenti forse un po’ troppo “adulti”, che narra la crudele fiaba di Andersen con buon ritmo alleggerendo il finale che, come si sa, vede una principessa troppo capricciosa abbandonata nel bosco da un principe che per conquistarla ha accettato addirittura di fare il guardiano dei porci.
Maggioni co-regista e autore dello spettacolo con le stesse Ferri e Baruffi preferisce che più che interpretare i personaggi del racconto gli attori entrino ed escano dallo stesso, ora narratori ora figure accennate e subito abbandonate, fidando sulle loro capacità. E fa bene perché, iniziando da se stesso, il cast è simpatico e coinvolgente e, tutto sommato, c'è meno inquietudine e più in simpatia.
Leggermente insofferenti e nervosi si sono dimostrati i bambini di fronte ai “Racconti delle grandezze” del Teatro Valdoca. Probabilmente erano di età inferiore a quella consigliata ma i testi di Mariangela Gualtieri – fiabe dalla durezza e dallo splendore di diamanti – affrontano in maniera poetica e minimale tematiche impegnative e profonde, racconti che trovano strade diverse e disorientanti rispetto a quelli tradizionali. Parole di gran fascino che trovano corpo e contraltare nella messa in scena di Gatto Valerio Bonanni che sembra fidarsi più delle ombre che della luce. Atmosfere rituali piene di sussurri e melodie struggenti, proiezioni dell’inconscio che affiorano velate, fantasmi che non sono altro che le nostre paure e le nostre insicurezze. Formalmente squisita, la messa in scena trasferisce nel mondo delle visioni i piccoli gioielli letterari della Gualtieri spesso, però, di consistenza tutta terrestre.
Il romano Teatro delle Apparizioni si unisce al Teatro dei Sassi per un ambizioso progetto che sta iniziando a produrre materiali molto interessanti ed indubbiamente ammalianti.
“Il burattino con i fili” per un verso è la presentazione di bianchi oggetti di scena ma diviene anche una performance molto libera in cui il pubblico diviene protagonista. Di fronte a tre teche vengono fatti inginocchiare altrettanti spettatori a cui vengono applicati dei piccoli cerchi con dei fili che raggiungono marionette poste nelle teche stesse. Le luci li inquadrano prima rigidi e fermi e poi, al ritmo di musiche, sempre più sciolti e partecipi nel dare movimento a figure dalla consistenza impalpabile. Marionette ed umani diventano parti di uno stesso corpo o, il che è lo stesso, di una stessa macchina con effetti molto poetici mentre tutt’intorno l’azione si fa sempre più complessa, si complica e si infittisce.
Una presentazione che incanta e che lascia presagire perlomeno un piccolo capolavoro quando Massimo Lanzetta e Fabrizio Pallara riusciranno a portare a termine lo spettacolo che si prefiggono ispirato al “Mahabharata”.
NICOLAVIESTI









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