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Eolo
recensioni
MAGGIO ALL'INFANZIA2023
GLI SGUARDI DI ROSSELLA MARCHI, FLAVIA GALLO, GIOVANNA PALMIERI E MARIO BIANCHI

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Per la ventiseiesima volta è tornato, tra Bari, Molfetta e Monopoli, il Festival pugliese “ Maggio all'infanzia”, che ha visto il Bosco incantato come tema portante della rassegna, con la direzione artistica di Teresa Ludovico, la cura del progetto di Cecilia Cangelli con la consulenza di Giorgio Testa. Come sempre si è svolto un programma che ha unito spettacoli, attività all’aperto, laboratori creativi e momenti di formazione per adulti e bambini, seguito da decine di operatori del settore giunti da tutta Italia. Una programmazione che si è mossa ancora una volta parallelamente a quella di Napoli, con le attività organizzate per il Maggio in Campania, in collaborazione con il Teatro stabile d’Innovazione ragazzi Le Nuvole di Napoli.
Nel corso del Festival sono stati riproposti tra gli altri “ E la Felicità prof” con in scena questa volta Luigi d'Elia che ha dato il cambio a Riccardo Spagnulo, Verso Bi del Teatro  del Piccione per i ragazzi e per il pubblico adulto  “ Barabba “ il bellissimo testo di Antonio Tarantino diretto con giusta pertinenza da Teresa Ludovico con in scena uno straordinario Michele Schiano di Cola.

ORA LE RECENSIONI DI ROSSELLA MARCHI, FLAVIA GALLO, GIOVANNA PALMIERI, MARIO BIANCHI


PINOCCHIO BAMBINO CRESCIUTO BURATTINO – Iac Teatro

Alla Casa di Pulcinella è andato in scena “Pinocchio bambino cresciuto burattino” un interessante lavoro prodotto da Iac Teatro in cui conosciamo un Pinocchio che nasce direttamente bambino, un bambino vivace e curioso che da subito metterà a dura prova la pazienza del suo genitore.
Pinocchio, interpretato da una convincente Barbara Scarciolla, si scontra/incontra con tutto ciò che la contemporaneità come un moderno Gatto/Volpe gli offre per dis-trarlo nel suo processo di crescita. Il nostro protagonista è un giovane contemporaneo che ha molti dubbi su un sistema formativo basato sulla teoria che non conferisce il giusto valore all’esperienza, ma nonostante questo decide comunque di provare ad andare a scuola. Ma l’esperienza di una giornata scolastica gli risulta davvero pesante: nozioni e temi si avvicendano uno dopo l’altro senza lasciare lo spazio per sedimentare. A questo proposito la scelta registica di utilizzare le proiezioni aiuta lo spettatore a provare la sensazione di oppressione che suscitano le varie materie scolastiche che sovrastano Pinocchio, sia per velocità che per dimensione e la musica che accompagna le immagini e gli sforzi del nostro protagonista risulta anch’essa stereotipata, composta con suoni che sembrano quasi quelli dei videogiochi. L’impressione che si ha è quella di un sistema formativo freddo e distante dagli allievi, che incasella e uniforma invece di fornire strumenti. E’ per questo che Pinocchio mentre si recherà a scuola s’imbatterà in Mangiafuoco, anch’egli una proiezione a sottolineare il carattere effimero di questo incontro, un personaggio carismatico e strambo che con grande facilità lo convincerà a prendere una scorciatoia per “avere successo”. E in questa scorciatoia incontrerà il gatto e la volpe, interpretati entrambi da Nadia Casamassima che interpreta anche Geppetto e Lucignolo, che in cambio della promessa di prendere dalla testa di Pinocchio la sua intelligenza, staccarla da lui e farla crescere a dismisura, gli danno un paio di scarpe pesanti con le quali compensare la testa vuota diventata ormai troppo leggera. Ma quelle scarpe contengono brutti e pesanti pensieri che nascono proprio da una testa vuota: paure di tutti i tipi, l’odio, la rabbia, il terrore del diverso. E con queste zavorre ai piedi Pinocchio diventa facile preda di tutti gli incontri che fa, personaggi che gli vogliono insegnare come vivere, cosa pensare, dove andare. Personaggi infidi che non lo ascoltano ma pensano soltanto a come farlo diventare succube del loro pensiero e delle loro aspettative. Su questa linea anche la Fata Turchina diventa un personaggio negativo perchè vuole che Pinocchio sia perfetto, che diventi giudizioso e un giorno, magari, avvocato, Lucignolo lo avvicina per portarlo in un mondo fatto di droghe allucinogene che lo portino lontano dalla realtà e dalla vita come un moderno paese dei balocchi. E sarà proprio dopo quest’ultimo incontro che Pinocchio si renderà conto di come ognuno di questi personaggi, compreso il padre Geppetto, avesse in realtà tentato di imporgli un modo di vivere e degli obiettivi senza invece aiutarlo a comprendere quali fossero i suoi. Quello che ci ha voluto raccontare Andrea Santantonio, regista e autore di questo lavoro, è la storia di un moderno Pinocchio che nasce bambino ma vive da burattino fino alla sua presa di coscienza. Riteniamo meritevole questo progetto soprattutto per la riscrittura di questo intramontabile classico anche se pensiamo che il linguaggio utilizzato per raccontare la storia sia indicato soprattutto a bambini e bambine delle scuole elementari. Allo stesso tempo riteniamo che alcuni concetti siano troppo azzardati per questo target d’età. La forbice d’età indicata, dai 6 ai 12 anni, è, a nostro avviso, troppo ampia: il linguaggio è adatto alle scuole elementari ma alcuni concetti sono maggiormente adatti ad un pubblico di scuole medie per le quali però il linguaggio utilizzato risulta a nostro avviso troppo infantile. C’è comunque un buon coinvolgimento del pubblico che per tutta la messa in scena partecipa appassionatamente alle vicende di Pinocchio suggerendogli cosa fare e allo stesso tempo quindi ragionando su di sé e sulla la propria condizione.

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COME SEME – Kuziba/ Teatri di Bari

Un lavoro dedicato ai piccolissimi, dai 2 ai 5 anni, la nuova produzione di Kuziba e dei Teatri di Bari che debutta per la prima volta presso uno spazio raccolto, nella chiesa del Sacro Cuore di Monopoli. In scena Gianna Grimaldi e Annabella Tedone che cura anche la regia di questo progetto, ci raccontano il viaggio di un seme. Un seme che è anche un Sé-Me perché è Promessa che già tutto contiene ancora prima di germogliare e diventare. E queste due madri/figlie che vediamo in scena nascono e fanno nascere, scoprono e ascoltano niente più che loro stesse e ciò che gli consiglia il loro stesso essere nate. Non ci vuole nulla di più che la Vita per suggerire altra vita. E così vediamo il percorso di viaggio di una vita da quando viene pensata, germoglia e fiorisce così, senza motivo, perché non ci vuole un motivo perché questo accada. Si passa per soste e riprese, per arresti che sono utili per crescere e sedimentare, si passa per riposi e accelerazioni. E tutto parla di questo: c’è terra in scena. Terra fertile, terra piena di buchi in cui poter infilare e trovare elementi che aiutino a crescere. Il pensiero diventa gesto, diventa movimento dapprima inconsapevole e poi appreso e poi, lentamente, si fa parola, si fa relazione con l’altro, si fa gioco che costruisce e si prende cura. E’ da quel calore che tutto, nel ventre della terra, si fa carne, foglia, radice. Tutta questa vita pulsante che si cura nel profondo, che si prepara a donarsi al mondo, che prende coraggio e forza di farlo ancora una volta, nonostante tutto: spaccare la crosta dura della superficie per aggiungere la propria storia alla storia di tutti gli altri ed essere insieme il Racconto dei Racconti.

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PICCOLO SUSHI – Factory Compagnia Transadriatica/Fondazione Sipario Toscana

Un piccolo gioiello il nuovo lavoro di Tonio De Nitto nato da un’idea di Michela Marrazzi di cui possiamo ammirare in scena la maestria nell’animare una meravigliosa marionetta ibrida di dimensioni umane manipolandola con la bocca. La scena, curata nei minimi particolari, è davvero suggestiva e rievoca un mondo che ci ricorda l’immaginario di Miyazaki. Sushi è il nostro protagonista, un ragazzo che tutte le mattine arriva con il suo carretto per la vendita del pesce in strada. Ogni giorno alla stessa ora i suoi gesti si ripetono, sempre uguali: l’apertura del carretto, l’accensione della musica sempre sullo stesso pezzo, il colpo alla zampa del Maneki Neko, letteralmente “il gatto che invita” che muove la zampa ossessivamente per invitare i clienti ad avvicinarsi. Anche i saluti alle persone che passano sono sempre gli stessi. Sushi non si fa domande sul suo futuro. E’ scontato infatti che continui l’attività che suo padre gli ha lasciato in eredità. Non dovrebbe farsi domande il nostro protagonista né ascoltare i propri desideri. Ma bastano dei piccoli pezzi di pesce e dei chicchi di riso al vapore per mettere in moto la sua fantasia e, mentre le sue mani creano personaggi fantastici con il riso, ecco che gli haiku e la musica gli suggeriscono la possibilità di una vita diversa, di un futuro non più legato alle aspettative degli altri e della famiglia ma alla presa di coscienza dei propri desideri. E mai musica fu più calzante: la Madama Butterfly accompagna infatti il momento di evasione di Sushi, quello in cui la sua mente vola e costruisce piano piano la forza e la consapevolezza di ciò che vuole diventare. Ma la voce del padre lo riporta sempre alla realtà costringendolo ad incarnare, a costo di sacrificare la sua felicità, la vita di un ragazzo in cui non si riconosce. E giorno dopo giorno, ripetizione dopo ripetizione, quei momenti in cui il sogno di Sushi prende il sopravvento diventano sempre più nitidi e sempre più irresistibili fino a quando Sushi, ormai pienamente consapevole della sua metamorfosi, decide di lasciare per sempre quella vita per dedicarsi finalmente alla sua. La cura di questo lavoro è minuziosa in tutte le sue declinazioni: dalla scena alla marionetta e la sua animazione, curata da Nadia Milani, dalla musica originale composta da Paolo Coletta alle luci di Davide Arsenio. La regia di Tonio De Nitto colpisce per il rigore e il coraggio di portare un mondo culturale completamente diverso dal nostro rispettandolo fino all’ultimo e senza stravolgerlo mai. La ripetizione dei gesti a cui è costretto Sushi creano allo spettatore lo stesso disagio che vive il nostro protagonista che come lui attende l’attimo di evasione e che come lui costruisce dentro di sé il momento del cambiamento che avviene proprio nell’istante in cui matura nel protagonista e nello spettatore. Colpisce il lavoro di questa compagnia che sorprende spesso per l’eterogeneità delle sue proposte, per la ricerca continua ed appassionata dei linguaggi, per i territori esplorati per cui sente una fascinazione, per l’attenzione che richiede allo spettatore che li segue. Che mai si siede sapendo quello che lo aspetta.

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BUONI/CATTIVI – La luna nel letto

Un manifesto di libertà quello di Michelangelo Campanale. Uno spettacolo generoso che ci racconta una storia tra le righe di un’altra. Uno spettacolo che fa ridere e commuovere, come spesso fanno i lavori di questa compagnia. Un lavoro dedicato ai bambini ma che molto ha da dire anche agli adulti. Insomma: un lavoro a cui donare attenzione perché in quarantacinque minuti di cose ne dice molte. E sono cose che cambiano i punti di vista, che danno coraggio, che fanno sperare. Campanale ci racconta la sua esperienza di alunno sovrapponendola e intersecandola al racconto illuminante di Mark Twain “Storia del bambino buono. Storia del bambino cattivo” con il quale l’autore, nel 1870, sovverte completamente l’idea di una verità assoluta e soprattutto della natura moralista e massificante della letteratura per l’infanzia. Il pubblico entra in un teatro in cui si percepisce che lo spettacolo è già cominciato. C’è la nebbia infatti, una cortina che già altera la percezione perché ha bisogno di portarti in un ambiente atemporale dove possano convivere un passato che racconti, un presente in cui riconoscersi e una possibilità di cambiare lo sguardo nel futuro. Un canuto Mark Twain vestito di bianco, magistralmente interpretato da Ippolito Chiarello, siede alla sua scrivania che in un attimo diventa il suo banco di alunno dal quale osserva la sua maestra odiosa che con voce stridula gli chiede di inventarsi una storia da raccontare ai compagni. Il nostro piccolo Mark racconterà la storia del bambino cattivo. Un bambino che nonostante tutte le cose orribili che commette sarà un uomo fortunato anche grazie alla creatività del suo inventarsi la vita. Dopo aver raccontato questa storia a tutti i compagni (e aver suscitato l’ilarità di tutto il pubblico) la maestra va su tutte le furie e insiste perché porti la storia di un bambino buono per la lezione successiva. E così farà il bambino Twain che racconterà la storia di un bambino buono, obbediente che si conforma alle regole senza discutere ma che sarà colpito da ogni sorta di sfortuna, inclusa la morte. Inferocita l’antipatica maestra, talmente antipatica e con tratti talmente precisi che ci fa intuire che ci sia qualche elemento autobiografico in questo personaggio, urla a Mark che due storie così sono senza senso in quanto sono racconti senza la morale, e gli chiede quale mai possa essere il messaggio nel suo racconto. Nella mente degli spettatori si fa immediatamente strada l’immagine della difficoltà che qualsiasi prodotto artistico ha nell’essere accolta, soprattutto nel contesto scolastico, se non ha qualcosa di insegnare, come se il teatro non fosse un oggetto artistico e avesse di per sé un suo valore intrinseco ma fosse uno strumento didattico e conformistico. Mark Twain esalta l’eccezionalità di ogni essere umano, ne celebra l’unicità e Campanale fa suo questo pensiero e in questo spettacolo ci mostra in controluce la sovrapponibilità delle due anime, quella del bambino e quella dell’artista: hanno in comune lo stesso stupore, sono essi stessi opere d’arte e come tali non vanno indottrinati, diretti, sommersi di aspettative. Vanno lasciati liberi perché solo così abbiamo la possibilità che diventino ricchezza per l’umanità. I bambini e le bambine, gli adulti tanto possono ricevere dalla visione di questo spettacolo: una piccola spinta ad avere la forza e il coraggio di essere sè stessi , di osare, di ascoltare dove li porta la propria fantasia perché non esiste un giusto o uno sbagliato che siano incontrovertibili. Non esiste una verità unica. Esistono strade che ci indichiamo che vanno percorse perché ci portano ad assomigliarci, ad avvicinarci sempre di più a quello che siamo. E’ così difficile avere il coraggio di essere liberi che qualsiasi cosa ci spinga in questa direzione diventa incredibilmente preziosa. Il valore di questi due racconti prospettici si dispiega come una vela gonfiata dal vento, via via sempre più forte fino ad arrivare ad avere una forza irreversibile che porta al finale in cui viene raccontato un aneddoto: Frank Capra dopo la proiezione di un suo film risponde così ad un giornalista che gli chiedeva quale fosse il messaggio sotteso alla sua opera: “Messaggio? Ma io non faccio il postino. Io faccio arte!”. E questo finale diventa una richiesta di ascolto senza condizioni ma anche una grande presa di coscienza di quanto sia fondamentale che gli artisti continuino a mantenere la propria autonomia creativa. Si esce da teatro accompagnati dalle note con cui si viene accolti all’inizio ma ora le parole della canzone dei Beatles “While my guitar gently weeps” (mentre la mia chitarra piange dolcemente) assumono pienamente il loro significato: “…non so perché qualcuno vi controlla/Loro vi hanno comprati e venduti/ Guardo il mondo fuori e mi accorgo che sta cambiando radicalmente/Mentre la mia chitarra piange dolcemente…”.

ROSSELLA MARCHI



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IL SOGNO DI SHAKESPEARE- I Nuovi scalzi/ ITeatri di Bari

Uno spettacolo raffinato e sensibile nel cogliere Il sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare e riproporne l’idea profonda; un’opera pensata per un pubblico di ragazzi e ragazze ricca di temi importanti, dal sessismo al razzismo, dall’omofobia all’amore per l’altro e per la propria lingua. Gesto d’autore che propone una riflessione sulla natura del personaggio e del testo giocandosi come un riadattamento meta-teatrale (firmato da Savino Maria Italiano e Ivano Picciolo) colto e ardito ma vicino, vicinissimo alla comprensione e al sentimento della vita dei più giovani. La compagnia de I Nuovi Scalzi gioca un teatro fisico e d’immagine attraverso il linguaggio espressivo della maschera, del nuovo circo e delle performing arts: artisti completi, esperti di commedia dell’arte, musici e cantori con una formidabile preparazione alla tenuta di scena, ci regalano una commedia esilarante e poetica che (finalmente) scavalla di gran lunga la durata convenzionalmente stabilita (solo in Italia) dell’ora e qualcosina del teatro per le nuove generazioni.
La Commedia originale del 1595 circa, divisa in cinque atti, in versi e prosa, mette a sistema elementi compositi che richiamano Apuleio, Ovidio, Chaucer e diverse leggende popolari per sviluppare una vicenda, ambientata in un tempo e in un luogo favolosi in cui s'intrecciano i contrastati amori di due coppie di giovani, Erminia e Lisandro ed Elena e Demetrio, i diverbi fra Oberon e Titania, re e regina delle fate, le complicità delle creature del bosco, e persino le prove di un dramma dal titolo “La tragica commedia di Piramo e Tisbe” da recitarsi in occasione delle nozze di Teseo duca d'Atene e Ippolita, regina delle Amazzoni. Non è dunque facile accostarsi a questa materia, aggiungere altra vertigine narrativa aggiungendosi come Nuovi Scalzi e diventando quegli artigiani che s’incontrano per preparare il Sogno di una notte di mezz’estate. Eppure non solo l’operazione è riuscitissima ma parla costantemente, senza un soluzione di continuità del vibrante ritmo dialogico, al pubblico di ragazze e ragazzi divertito, convinto, accattivato fino alla fine da questa compagnia dal tangibile respiro europeo, vocata alla diffusione della cultura del teatro popolare nella commistione tra musica, danza, teatro di prosa, fisico, di strada e visual art.
Il bosco del Sogno è terreno liminare e di passaggio: soglia tra due realtà consce, luogo di manifestazione della natura fonda dell’esistenza, perdizione per la mente soggiogata e dimensione giocosa per il popolo di presenze che destruttura la società umana per dar spazio a inquietanti e seducenti realtà immaginifiche. Ma qui vi è di più: i segni dell’allestimento a vista, la macchina teatrale pura, l’effetto sonoro, il gioco delle quinte velano e disvelano persone, attori e personaggi e la natura stessa dell’humana foresta. In questo bosco teatrale il perdersi per ritrovarsi, il continuo e ripetuto scambio di ruoli, il limite tra amore e fantasia, sogno e reale, attore e personaggio, segna l’annuncio del ritorno all’uno, all’essere umano che nella solitudine onirica della notte inventa una versione di se stesso e di un mondo da correre in alleanza e in rapporto di partecipazione con tutte le altre creature.
Non si può non notare e mettere in risalto un segno preciso: la scrupolosità della lingua e dell’esattezza testuale pretesa dall’attore che impersona Demetrio (Thilina Feminò) il cui colore della pelle ci aiuta a rianimare il sogno di un’Italia delle scene teatrali finalmente calcate dalle seconde generazioni di migrazione, una possibile Italia, purtroppo non ancora manifesta, della poesia e della prosa scritta in lingua italiana ma da artisti provenienti da altri luoghi d’origine e da altre culture. Un’Italia tutta da far emergere, quella dei mestieri del teatro e dell’arte abitati da culture teatrali diverse (come da noi si vede davvero raramente se non addirittura mai) e di cui I Nuovi Scalzi sono già testimoni e maestri in opera.

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CENTO CENERENTOLE-Inquanto Teatro

Senza alcuna supponenza, con sincerità e capacità professionale, la Compagna  Inquanto Teatro porta sul palco del Maggio all’Infanzia, in anteprima nazionale, un’interessantissima opera di riscrittura della celeberrima fiaba Cenerentola, mostrandoci un modo d’interloquire intorno alle fiabe e di farle proprie in rapporto vivo con la realtà del pubblico dei piccoli. In quest’opera, molto vicina ad attività performative che nel nostro Paese ricordano l’epoca d’oro dell’Animazione (che vasta traccia ricca di pro e di contra ha lasciato nel nostro modo interiore di concepire la scena del Teatro per l’Infanzia), l’autore Andrea Falcone, traguardando bene la versione disneyana, aggancia due nodi tematici chiaramente portati: quale nomignolo ci è stato dato e in cosa vorremmo trasformarci.
Con autentica ironia (della lingua e della cultura rappresentata), senza calcare mai la mano su nessuna ideologia (e probabilmente senza nessuna premeditazione di proiettarsi nel mercato del Teatro Ragazzi), il regista Giacomo Bogani costruisce un intelligente coinvolgimento in progress, reimmettendo via via nell’opera in fieri gli spunti ripresi dal pubblico. Nella grande maschera Drag dell’artista e autrice Ava Hangar, interpretata da Riccardo Massidda, non vi è nessuna ambiguità: una signora d’altri tempi con il vocione, imponente e con tono bisbetico, si presenta, senza mai irridere alla femminilità, come personaggio mascherato e come lettore di una fiaba attraversabile, inedita e metamorfica. La possibilità di cambiamento coincide con la funzione relazionale al cuore di questa vicenda artistica che si articola attraverso la sospensione narrativa e l’intervento di un presentatore (Andrea Falcone) in scena con microfono, sotto luce televisiva e incaricato di svolgere delle indagine in presa diretta tra i bambini.
Chi ha un soprannome? Come ti chiamano gli altri? Quale nomignolo ti è stato dato dalla tua comunità d’appartenenza? Perché se c’era una volta una bambina che tutti chiamavano Cenerentola o Impertinella o Sudatella, oggi ci siamo noi, con i nostri appellativi da portare e sopportare, da commentare e di cui darsi ragione in Teatro, luogo del dibattimento per eccellenza. Perché ci chiamano così? Quale motivo ci ribattezza al mondo nello sguardo degli altri? Il tema è cruciale. Il presentatore, guidato da Ava, mentre la lettura della fiaba scorre, continua la sua interrogazione, mai modaiolo o ammiccante, sempre in linea con l’intenzione d’illimpidire. Ed ecco che si fa strada il secondo fondamentale quesito: se potessi trasformarti, cosa vorresti diventare? L’ordine della magia irrompe nella sua qualità di concretezza non pretestuosa, nella forma dell’impossibile extra-quotidiano che si fa strada nel possibile odierno, tipico del genere fiabesco. Quest’ultima intervista ci svela l’essenza di Cento Cenerentole: si critica l’esistente coinvolgendo il pubblico bambino su due problemi di grande momento (ovvero come l’altro ci definisce e l’evento del trasformarsi) che appartengono all’umano e non solo al bambino: è cosa interessante in assoluto qui proposta con bella e riuscitissima proporzione tra processo condiviso e creazione dello spettacolo.
Ultima annotazione: chi ha ideato questo lavoro è chiaramente intero alla cultura lgbt+ ma realizzando un sistema di rappresentazione aperto sulla base dell’esperienza (e non un dispositivo di battaglia di parte), rimane esterno al tratto ideologico: l’opera vive e si muove attraverso la visione e il collaudo del pubblico, avvalendosi pienamente della fluidità della fantasia di cui la fiaba dispone ed elaborandola culturalmente con regola drammaturgica.
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TOTO' DEGLI ALBERI- Kuziba/Tib teatro

Si sente da lontano l’euforia davanti al teatro costruito dalla Compagnia Kuziba. Ci sono degli alberelli attorno al perimetro della costruzione, giovani ed esili, e si intravede una porticina dalla quale il pubblico comincia a entrare: i bambini e le bambine ci passano perfettamente, noi adulti solo facendoci piccoli, inchinandoci.
In un’atmosfera di totale gioia, tutti raggiungono le postazioni sui palchetti gattonando, cadendo un poco gli uni sugli altri, giocando durante questo ingresso a teatro che sembra pensato per l’esaltazione del corpo dell’infanzia. Incanta uno spazio in cui, al posto delle poltroncine rosse e dei tetti alti, ci sono il legno, la terra battuta e il cielo. Siamo dentro, al centro di un cosmo scenografico e musicale accuratissimo: siamo nella bocca dell’immaginazione, espressione felicissima della grande studiosa del comportamento dei bambini e delle bambine nel momento della fruizione teatrale Mafra Gagliardi che si domandava cosa significasse per loro andare a teatro. Mafra che ci ha insegnato come guardare il bambino che vede…
D’un tratto compare una famiglia di teatranti; pare che questo teatrino a cielo aperto sia anche la loro casa. Il gruppo sta lavorando alla messa in scena de Il barone rampante, il celebre romanzo di Calvino che racconta di Cosimo Rondò d’Ombrosa, giovane che decide di salire su un albero e di non scendere più per sottrarsi alla costrizione paterna. Purtroppo, però, a causa di alcuni bisticci famigliari, la recita viene interrotta e il figlio maggiore, Totò, in risonanza perfetta con le vicende del barone di Rondò, innesca una rivolta contro il padre finendo per salire su… un albero? No… eppure sì! Ed è qui che si gioca la metafora più sensibile di quest’opera.
Un poco faticosamente si distinguono tutte le cornici narrative e si chiariscono i diversi piani di realtà, ma alla fine si arriva ad accogliere pienamente un’immagine ampia, definita e potente: il teatro è un albero! Totò grida forte il suo NO disubbidiente al dettato paterno e tutto il pubblico, piccoli e grandi insieme, sente chiaramente il colpo inferto all’autorità oppressiva. Tutti ammutoliscono, fuori e dentro la scena. Il teatro è un albero: è radice della relazione, sistema linfatico tra generazioni, ramificazione per l’azione futuribile.
Ma ecco che gli attori si arrampicano, salgono e scendono, si agganciano, si appendono, rischiano, saltano, dondolano, passano da un piano all’altro. La loro energia e presenza non si smaterializza mai: sono sempre in costante ascolto, appropriati al ruolo e certamente in un sistema di accordi sottili con il ricco disegno sonoro originale.
La rivolta umana per la libertà di Totò parte da un NO potente alla rinuncia di sé per poi trasformarsi in un delicato inno dell’anima che attraverso il corpo respira e sale, e salendo si volteggia come le pagine di un libro in un volo colmo di grazia. E lì, proprio davanti a questo volo finale in cui la musica si esprime al suo più pieno grado, ti ricordi all’improvviso degli alberelli verdi che fanno da perimetro sacro e li vedi idealmente attecchire, germogliare, procedere in altezza e profondità. Ripensi alla forma lignea e circolare di questo teatro piccolo piccolo e a quell’inchino, memoria di antiche e arboree benedizioni.
Altri artisti viaggianti si sono spostati con strutture itineranti per la nostra Italia che fa fatica a riconoscere il teatro come corpo vivo metamorfico, matrice di un possibile ripensamento della città, spazio ravvicinato tra umani che giocano e rigiocano il senso del mondo.
Ma questo pensiero, Soriato e il suo ensemble, lo hanno di sicuro tenuto in gran conto decidendo che, a teatrino smontato e nei luoghi di ogni replica, dovesse rimanere il semicerchio dei giovani alberi: una traccia piantata come simbolo e come materia di una liberazione.

FLAVIA GALLO


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CHUUUT(E) - Spettacolo di danza /Affido culturale per il Maggio all'infanzia/Z ART DANCE/ Center Culturel AALT STADHAUUS – Centre Cultural la Rotondes di Lussemburgo , una produzione con il supporto di molti Centri Culturali e Fondazioni Culturali del paese.

Il tema : la caduta . Il coreografo e autore Giovanni Zazzera italiano di origine ma da molti anni attivo in Lussemburgo ci propone una perfomance di danza dal sapore internazionale attraverso tre danzatori di altissimo livello tecnico : la portoghese e bravissima Catarina Barbosa, il francese Baptiste Hilbert e il danzatore e circense giapponese Hyato Yamaguchi che con una vena di malinconia cerca di tenere in equilibrio e di controllare gli altri due fino a cedere alla fine al gioco della caduta . Perché di un gioco si tratta quando si cade continuamente nella vita da piccoli e da grandi in ogni momento in ogni istante : l’importante è non farne una tragedia e rialzarsi sempre .
Qui il cadere è un gioco continuo proprio come fanno i circensi come fanno i bambini piccoli che dal pubblico continuano a ridere e a reagire ad ogni passo e movimento senza chiedersi il perché e il per cosa : i bambini piccoli, spettatori ideali degli spettacoli di danza, afferrano subito l’aspetto divertente del gioco . E’ infatti uno spettacolo che nasce dal desiderio del coreografo, che abitualmente lavora per adulti, di confrontarsi e sperimentarsi attraverso laboratori ed incontri con i bambini stessi, attento alle loro reazioni e azioni.
Il pubblico più grandicello nelle poltrone dietro al mia cerca la storia, il filo, le relazioni : “adesso vedi lui s’innamora di lei e poi invece l’altro è sicuramente geloso e poi….” Questo il commento delle due ragazzine che durante lo spettacolo si raccontano l’un l’altra la storia vissuta .
Uno spettacolo che insegna come il livello tecnico negli spettacoli di danza è molto importante e che si avvale anche di una accurata messa in scena fatta di pochi oggetti ma fondamentali e di un altrettanto accurato studio dei movimenti : niente infatti è lasciato al caso come nei migliori numeri circensi , e questo è un buon insegnamento insieme ad una bell’approccio giocoso di parlare ai bambini ed agli adulti ,del cadere e dell’affrontare gli ostacoli che s’incontrano ogni giorno della nostra esistenza .
Lo spettacolo meritava la visione anche come sguardo ed esempio della danza praticata nei Paesi Bassi,paese che da molti anni ha l’occasione e le potenzialità di sperimentare il linguaggio della danza rivolta ai più piccoli .

GIOVANNA PALMIERI
Quattro gli spettacoli che abbiamo visto nell'ultima giornata del Festival.

LA STANZA DI AGNESE- Meridiani perduti/Factory Compagnia Transadriatica
Sara Bevilacqua, dopo averci appassionatamente regalato Stoc ddòio sto qua , dolorosa testimonianza di una madre che ha perso un figlio ucciso dalla malavita
a Bari, anche questanno al Maggio allinfanzia ci ha commosso e ammaliato neLa stanza di Agnese “ , interpretando in modo naturale e accorato Agnese Piraino Leto
Borsellino, vedova del magistrato palermitano, che vicino alla morte per una malattia, va indietro nel tempo a raccontarci il rapporto tenero con il marito,
tratteggiandone
in modo appassionato la figura. E dalla memoria escono il loro primo incontro, lei Figlia del presidente del Tribunale di Palermo e ben inserita nell
alta borghesia, lui giovane magistrato,la ritrosia affettuosa di lui, il rapporto con Falcone, la nascita dei loro figli, la vita difficile, con quel sentore di morte che li
circondava.
Inoltre vengono anche sottolineate le connivenze, le trame, i sospetti per una verità scomoda che doveva essere sempre sottaciuta, in una realtà dove
Borsellino e Falcone, si immolarono per restituire dignità alla loro terra martoriata. Tutto viene restituito dallinterprete con semplicissima adesione al personaggio che
ci appare vivo sul palco come vive ci paiono le persone e gli avvenimenti via via raccontati.
La stanza di Agnesepoi risulta essere anche, come la precedente creazione dellartista pugliese, senza retorica alcuna, uno spettacolo di testimonianza
inesausta
a non lasciarsi mai andare, uno sprone a combattere il male, sempre e comunque.

ESSERE O NON ESSERE- Babilonia Teatro

Una compagnia che seguiamo con affetto e stima sin dal suo nascere, pone in campo il tema dell’identità sessuale già affrontata con estrema cura per i ragazzi da creazioni come "Barbie e Ken" e "Spaidermen" in un nuovo spettacolo prodotto da Koreja .
Ci pare però che lo spettacolo di Valeria Raimondi e Enrico Castellani questa volta non riesca ad andare sino in fondo nell’affrontare una tematica così delicata, accontentandosi di rimanere in superficie. Ecco dunque sfilate molto glamour in cui le varie declinazioni della sessualità si mescolano tra loro, mentre dissertazioni linguistiche sul femminile e il maschile vengono enunciate senza una vera metaforizzazione teatrale. Bella l’idea di affrontare il tema per quadri e per immagini con l'utilizzo del linguaggio performativo, così raro nel teatro per l’infanzia, per esempio con l’uso significante dei vari colori impressi dal vivo sul corpo della performer, tutto naviga è vero in un'aura di divertita leggerezza, ben condotta certo da Carlo Durante, Barbara Petti, Enrico Stefanelli e Anđelka Vulić, ma a nostro avviso vivendo soprattutto attraverso clichè che continuano a ripetersi senza aggiungere stimoli di vera riflessione al pubblico dei ragazzi.
Ci pare infine che l’idea iniziale dell’extraterrestre che, giunto tra i cosiddetti “normali” abitanti del nostro pianeta, debba poi partirsene sconsolato, vada proprio contro la consapevolezza che ognuno sulla terra possa sentirsi come vuole, come è giusto che sia, senza bisogno di essere accettati o di dover sparire .

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IL BAMBINO TRA LE STELLE - Teatri di carta / POLLICINO SHOW -ARTEMIS DANZA

L’ultima giornata del Festival ci ha regalato anche due spettacoli che pur contenendo molte  suggestioni non ci hanno completamente convinto. “Il Bambino tra le stelle” di Teatri di Carta e “Pollicino Show” di Artemis danza. “Il Bambino tra le stelle” con la regia di Francesco Campanile e la scrittura scenica di Tiziana Tesauro con Chiara Abagnale, Connie Dentice, Marco Lorenzo Panico, mette in scena l'infanzia di Neil Armstrong, l'uomo che per primo mise il piede sulla luna. Davanti a noi si muovono i personaggi di Neil bambino, della madre premurosa e del padre burbero e severo, che indossano le pur belle ed espressive maschere di Luca Arcamone. Il bambino ha una vera passione per le stelle ed il volo e ogni sera parla con la Luna, la sua migliore amica, promettendole che un giorno sarà il primo a raggiungerla. Per ringraziarlo, la Luna gli regala un super potere: un raggio di luce contagioso che può trasformare le persone rendendole felici. Ma una forza misteriosa si frappone tra il bambino e i suoi desideri. Tra gioie e paure, lotte tra il bene e il male, tutto per fortuna torna a brillare. Così Neil ritrova il coraggio, suo padre scopre la felicità e la Luna si accende nuovamente e il nostro bambino può danzare con lei. Purtroppo la messa in scena a noi è parsa veramente piena di luoghi comuni e di stereotipi bamboleggianti dove le metafore faticano davvero ad avere una giusta e concreta resa teatrale.
Colmo di spunti interessanti, purtroppo messi in scena non sempre con la giusta espressività, ci è parso anche “Pollicino Show” di Artemis Danza su regia di Cinzia Pietribiasi, coreografato e interpretato da Davide Tagliavini che termina con uno spunto davvero pieno di suggestioni, con il nostro bambino protagonista che, attraverso gli stivali delle sette leghe, diventa un ballerino meraviglioso, facendo diventare ricchi i suoi genitori, portando la sua arte in tutto il mondo. Peccato che la pur pregevole danza di Davide Tagliavini non riesca quasi mai a relazionarsi efficacemente con le immagini video e il Teatro di figura che riempiono la prima parte dello spettacolo e che il finale sia davvero troppo lasciato in mano all’immaginario dell’animazione da villaggio turistico anziché al teatro e alla danza.

MARIO BIANCHI



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