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Eolo
recensioni
IL REPORT DI MARIO BIANCHI SUL MAGGIO ALL'INFANZIA 2022
A BARI E MONOPOLI DAL 18 AL 22 MAGGIO. CON UN APPROFONDIMENTO DI GIUSEPPE ANTELMO

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Bari e Monopoli hanno accolto come sempre con grande senso di ospitalità gli operatori e gli spettatori, grandi e piccoli, bambine e bambini, per la XXV edizione del Maggio all’Infanzia, il festival diretto da Teresa Ludovico con l'insostituibile cura e accompagnamento di Cecilia Cangelli e organizzato da Fondazione SAT in collaborazione con Teatri di Bari, Italiafestival, EFA - European Festivals Association (nell’ambito del progetto Effe Label), il Garante dei minori della Regione Puglia e le Nuvole/Casa del Contemporaneo (che cura l'edizione campana del Maggio all'Infanzia con la rassegna di teatro fatto in classe sempre in Maggio al Teatro dei Piccoli a Napoli). La rassegna, da 25 anni sostenuta dalla Regione Puglia, vede anche il contributo dei Comuni di Bari e Monopoli. Il Festival che ha visto in scena 21 produzioni da tutta Italia, con cinque debutti nazionali e tre debutti regionali si è inaugurato mercoledì 18 maggio a Bari con lo spettacolo “Il gatto con gli stivali “ del Granteatrino di Paolo Comentale, programmato alla Casa di Pulcinella : attori e pupazzi in scena per far rivivere l’eroe a quattro zampe della celebre fiaba di Perrault. Il Festival a Bari è poi proseguito al Teatro Kismet con “La grammatica della fantasia” di Malalingua. Immancabile infine la presenza del Circo El Grito con il suo classico inimitabile“Uomo calamita” .
Ma il vero Centro del Festival sono stati i 3 giorni "intensi" di Monopoli, frequentati dagli operatori che come ogni anno sono giunti da tutta Italia. Qui il Maggio all'infanzia si è aperto con il particolarissimo e lodevole spettacolo “ La migrazione degli animali” dei Rodisio, Davide Doro e Mnuela Capece, di cui abbiamo già parlato in occasione del Giocateatro torinese.
Durante la nostra presenza a Monopoli siamo stati gioiosi testimoni dell'inaugurazione del Roof Garden, il grande spazio posizionato sopra il Teatro Radar, dove si sono esibiti il Pazo Teatro, Otto Panzer e l'ottimo, amatissimo Mirko Lodedo che ha accompagnato musicalmente da par suo tre corti muti di Charlie Chaplin. In Piazza Vittorio Emanuele poi la Compagnia I Nuovi Scalzi posizionata su un vero e proprio teatro viaggiante ha deliziato i numerosi spettatori presenti con tre spettacoli, dove spesso è stata la Commedia dell'Arte, di cui sono maestri a farla da padrona, come già era avvenuto l'anno scorso con la bellissima messa in scena dello spettacolo La Ridiculosa Commedia. La stessa delizia ci ha preso quest'anno nel vedere ancora sul palco il grande Bustric, Sergio Bini, che ha messo in scena il suo Teatro delle Pulci. Mago, intrattenitore, illusionista, poeta, giocoliere, Bustric è stato ancora capace di coinvolgere per un' ora tutti i grandi e i piccoli che hanno gremito il Teatro Mariella. Alla Biblioteca Rendella, Mamadou Diakitè, un giovane cittadino della Costa d’Avorio, aveva prima narrato con grande e semplice immedesimazione l'avventuroso viaggio compiuto dal suo paese verso il nostro per inseguire il sogno di una vita migliore. Sempre alla Biblioteca Rendella con Narr@zioni – il digital storytelling per le nuove generazioni, a cura di Damiano Nirchio e Vito Palumbo sono stai presentati i materiali prodotti durante i laboratori del progetto coordinato da Fly – Laboratorio delle arti Aps Monopoli, rivolti agli studenti del Polo liceale di Monopoli.” Il Festival ha anche proposto l'ultima favola di Emma Dante “Scarpette Rotte “ di cui abbiamo già dato conto in altra sede. Spazio poi alla danza contemporanea al Teatro Radar con “Yellow Limbo” una produzione Factor Hill, firmata da Alessandra Gaeta, che porta in scena le api, con le loro “geometriche direzioni, vibrazioni, passaggi di stadio, dalla costruzione alla perdizione, al desiderio mai esplorato fino in fondo”.

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Con immenso piacere a Monopoli abbiamo rivisto, questa volta, da soli in scena, tre artisti che provengono da percorsi diversissimi tra loro, che seguiamo da tempo in contesti altrettanto diversi e che si sono messi in gioco in tre monologhi anche questi di impostazione e atmosfera assai lontane tra loro : Riccardo Spagnulo, Otto Marco Mercante e Angela Iurilli.

E LA FELICITA'PROF ?

Riccardo Spagnulo, che con Licia Lanera per dieci anni ha formato una delle compagini teatrali più fervide della Scena Italiana, dopo aver collaborato come dramaturg in diverse altre creazioni, si è messo nei panni di un insegnante delle Scuole Superiori (che da poco tra l'altro esercita realmente nella vita ) in “E la felicità prof ? “ prodotto dai Teatri di Bari, tratto dall’omonima opera di Giancarlo Visitilli, edita da Einaudi. La narrazione dell'attore pugliese ripercorre con forte intensità il primo e secondo quadrimestre di una classe superiore. In questo modo attraverso tutte le varie storie dei ragazzi e delle ragazze con cui l'insegnante viene in contatto vengono esplicitate tutte le difficoltà, le speranze e le disillusioni insite in un età cosi particolare come l'adolescenza. Ma nel medesimo tempo il Professore, nel dover dare risposte sempre adatte ad ognuno di loro, riesce a conoscere meglio anche la sua stessa natura umana e professionale. Adattato e diretto da Spagnulo ( che lo porterà in scena alternandosi con Luigi D'Elia) in stretta collaborazione con l'autore del libro, la narrazione che spesso dialoga con le immagini video di Bob Cillo, pur non essendo esente da semplificazioni e stereotipi già visti, si rivela essere un efficace, a tratti commovente, romanzo di formazione in cui i ragazzi e i professori possono benissimo rispecchiarsi.

FARFALLE

Eccoci poi a “ Farfalle” con Otto Marco Mercante, attore che normalmente abbiamo sempre osservato in scena con la sua compagnia, Principio Attivo. Qua con l'accorta regia di Tonio de Nitto trasforma una semplice breve narrazione che abbiamo visto al Festival Kids nel progetto “In treno con le storie” in un vero e proprio spettacolo, composto da tre racconti fiabeschi che, utilizzando la farfalla come metafora del cambiamento, hanno come tema principale la trasformazione,: “Storia del Primo…” affronta la crescita del bambino e della sua necessità di identificazione con il mondo circostante, “Il Gigante e la Farfallina” tratta invece della trasformazione adolescenziale e del rapporto con i genitori, mentre “La Farfalla troppo bella” si concentra sul mutamento dall’età adulta a quella della vecchiaia con la conseguente caducità della bellezza. Con estrema sommessa semplicità, utilizzando piccoli oggetti che estrae da un elegante bauletto, che infine si trasforma in un vero e proprio trumeau, con tanto di specchio, Mercante, accompagnato da significanti interventi musicali, esplora tutte le bellezze, le paure e le difficoltà, insite in ogni essere umano, che nasce, diventa grande e si avvicina a morire per diventare parte dell'universo.

IL FIGLIO

Il terzo piacere è stato quello di vedere Angela Iurilli, artista da noi amata sin dai suoi esordi, che mette in scena un misterioso racconto, traendolo da “Il figlio di due madri” di Massimo Bontempelli, autore semisconosciuto che andrebbe riscoperto, anche per il suo teatro, spesso di impronta onirica, come il suo capolavoro, “Minnie la Candida “.
L'artista con le sonorizzazioni e le musiche dal vivo di Sabrina Di Mitri, narra al pubblico la storia dolorosa di un figlio conteso da due madri : tre esistenze che ad un certo punto della loro vita non sanno più di essere come sono sempre state. Angela Iurilli conduce perfettamente la narrazione coinvolgendo emotivamente gli spettatori, come un vero e proprio thriller, impregnandola anche di ironia, riuscendo a parlare nel contempo di morte e resurrezione.

STOC DDO
Segnato da grande e forte commozione per noi è stato “Stoc Ddo' - Io sto qua “, della Compagnia “Meridiani perduti “ anche e soprattutto per la straordinaria interpretazione di Sara Bevilacqua che, sulla convincente ed emozionante drammaturgia di Osvaldo Capraro, narra in prima persona il dolore lancinante di Lella, la madre di Michele Fazio, un tenerissimo ragazzo di sedici anni che muore, colpito per errore durante un regolamento di conti tra clan rivali a Bari, nella città vecchia, il 12 luglio del 2001. Ma non è solo il dolore di Lella a rendersi vivo e palpitante sulla scena, insieme a quel dolore che è così profondo e ingiusto da non potere avere nemmeno un nome, piano piano fa capolino in lei, sino a rendersi partecipe e dirompente, la furiosa necessità interiore di vendicare quella morte, non con una pari violenza, come si usava fare allora, ma con la forza della giustizia. Da quel momento infatti la vita di Lella si consacra alla resa dei conti con i Clan camorristici che spadroneggiavano nella Bari vecchia, dove anche lei viveva. Lella lo fa testimoniando, puntando gli occhi negli occhi di chi vuole imporle il silenzio per il quieto vivere: io non fuggo, e nemmeno chiudo la porta di casa: “Stoc ddò”, continua a ripetere. Sara Bevilaqua per mezzo di una narrazione ora dolente ora energica ci comunica tutti i sentimenti che hanno percorso il suo indimenticabile personaggio. Dalla determinatezza della propria madre, cumma’ Nenette, alla vicinanza e pazienza del marito Pinuccio, alla gioia di essere madre, soprattutto per quel figlio così allegro e altruista da essere definito in tutto il quartiere come un "Angelo ", dal disprezzo per le donne del Clan che facevano sempre finta di niente, sino al dolore incommensurabile di vedere il figlio diletto morire, ma con cui non ha mai spezzato il dialogo. E poi il Coraggio della testimonianza che ha reso Bari Vecchia un quartiere molto più tranquillo. E l'abbiamo vista in mezzo al pubblico, tra le nostre di lacrime, la vera Mamma Lella, commossa e fiera, che con la sua presenza ci ha testimoniato ancora una volta come il Teatro possa essere l'arma vincente per tramandare agli altri la forza del Coraggio, la vittoria  del Bene contro il Male, la possibilità di rendere il mondo, almeno un poco migliore.



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HAMELIN

Si muove tra fantasia e realtà “Hamelin ” l'ultimo spettacolo di Tonio De Nitto, creato per Factory Compagnia Transadiatrica che lo produce con la Fondazione Sipario Toscana, avendo come dramaturg Riccardo Spagnulo. Lo spettacolo prende il nome da Hamelin, la città dove viene ambientato il famoso intreccio fiabesco che ha come protagonista il Pifferaio Magico, il quale per vendicarsi del Borgomastro, che contravvenendo a una promessa fatta, non lo ha pagato per essere riuscito a liberare la città dai topi, portatori di peste, conduce via con lui i bambini del luogo, per mezzo del suono del suo strumento incantato. La storia del Pifferaio di Hamelin è ancora avvolta nel mistero, tra fiaba e realtà. Hamelin infatti esiste per davvero : è una cittadina del nord della Germania, in cui siamo stati anche noi, e dove veramente leggenda e realtà si son fuse rispetto al misterioso accadimento avvenuto tanti anni fa. Un mistero intorno al quale sono state proposte diverse ipotesi, che però non hanno mai risolto l'enigma della sparizione di 130 bambini, come riportato nella targa affissa sulla cosiddetta casa dell’accalappiatopi, che anche noi abbiamo notato, passando per la città. Un fatto tragico di cronaca, trasmessoci nella tradizione orale, prima, e nella raccolta “Saghe germaniche” dei Fratelli Grimm, poi. Per suffragare ancora di più che tutto ciò sia realmente accaduto, si pensi che ad Hamelin vige ancora il divieto assoluto di suonare musica nella via Senzatamburi, dove anche i cortei in festa quando vi arrivano cessano immediatamente ogni suono. Ma cosa è successo ai bambini di Hamelin veramente? Lo spettacolo prova a raccontare e a ripercorrere l’origine di questo mistero con una sua ipotesi, giocando su diversi piani: quello temporale, diviso tra l’oggi (si ipotizza un vero e proprio programma sul mistero di Hamelin con indagini, reperti, e testimonianze) e quello più squisitamente teatrale che vede Fabio Tinella entrare in scena interpretando lo stesso Pifferaio. Adulti e bambini seguono quello che accade anche attraverso delle cuffie che li accompagna con un punto però di vista diverso.
Fabio Tinella è il pifferaio magico che arriva sulla scena con il suo Carettino teatrale dove utilizzando l’antichissima arte burattinesca, narra di come abbia liberato la città dai topi, portatori di malattie. Ma anche questa volta il Pifferaio, il burattinaio che ha coinvolto il pubblico con la sua arte, non viene pagato, anzi viene preso letteralmente a pesci in faccia (ai bambini tutto ciò viene riverberato in modo ironico e leggero attraverso un ronzio di mosche birichine ). Ma ecco che il teatro, l' arma magica in suo possesso, gli viene in aiuto, fornendo ai bambini in sala degli strumenti musicali, immaginari forse, ma che la grande forza inventiva della Scena renderà visibilissimi e portatori di suoni.  E così il Pifferaio e il pubblico dei bambini, coinvolti nel gioco teatrale che si sta consumando, trainando insieme a lui il teatrino dei burattini, spariranno dietro il fondale. Chiara la metafora messa in gioco: la peste, la pandemia ha reso ancora più difficile il mestiere del Teatrante che pure ha contribuito a combatterla, sconfitto, dunque, deve ritirarsi con il suo pubblico privilegiato. Ma De Nitto e Spagnulo, rompendo, nostro malgrado la magia che il Teatro era riuscito a regalarci, vogliono lasciare un messaggio di speranza e così, grandi e piccoli,alla fine, vengono invitati ad un grande ballo liberatorio che li coinvolge, uniti, per un domani migliore. Si consuma così uno spettacolo di rara magia e forza evocatrice che aggiunge una nuova tappa del tutto diversa nel cammino della compagnia leccese in cui Fabio Tinella si misura per la prima volta efficacemente con il Teatro di figura, restituendoci in modo complesso e foriero di diversi significati una storia senza tempo di misterioso spessore , così necessaria in un'età così difficoltosa per grandi e bambini come quella che stiamo vivendo.

Si sono tenuti  a Monopoli, gli incontri formativi a cura di Casa dello Spettatore: Che occhi grandi che hai! Il festival ha proposto un’attività quotidiana di accompagnamento e di educazione alla visione per un gruppo di spettatori tra i 5 e gli 11 anni accompagnati da uno o più adulti, insegnanti e/o genitori. Per guardarti meglio – osservatorio pedagogico - ha invece offerto invece un ciclo di incontri per un gruppo misto di insegnanti e operatori con il quale affiancare la visione degli spettacoli a uno scambio aperto e libero su estetiche, temi e potenzialità pedagogiche dell’offerta del Maggio.

ABBIAMO CHIESTO A GIUSEPPE ANTELMO DE LA CASA DELLO SPETTATORE UN SUO SPECIALE SGUARDO SU UNO SPETTACOLO DEL MAGGIO. LA SCELTA E' CADUTA SU HAMELIN.

Il cambio di stagione.
Dopo aver visto Hamelin al Maggio all’infanzia 2022.

Le cose che accadono, che vediamo e che ci spiazzano rappresentano sempre un’occasione: l’occasione per una scelta. Possiamo considerarle spurie, bizzarre, aliene oppure guardarle e continuare a guardarle proprio perché restano fuori dai cassetti del nostro armadio mentale senza consentirci di costruirne uno adatto. Un primo e parziale elenco di concetti e definizioni dai quali deborda l’esperienza di visione di Hamelin (Compagnia Factory Transadriatica) al Maggio all’infanzia 2022: tout public, coinvolgimento del pubblico, quarta parete.
Abbiamo trascorso mesi a cercare notizie, film o serie da scegliere - consigliate, suggerite - documentari, talk politici e poi il teatrononteatro: ripreso oppure pensato prodotto e riprodotto, comunque sempre visto attraverso uno schermo e spesso attraverso schermi diversi. Zapping tra canali ma anche tra piattaforme e sulla stessa piattaforma. Cosa è stato soltanto lo scorrere le locandine nelle diverse categorie sulle varie piattaforme per lo streaming? Dopo anni di telecomando e di Blob - senza parlare degli anni nelle sale cinematografiche - come ci siamo abituati a guardare nella moltiplicazione degli schermi alla prova di quelle tecnologie che sono letteralmente, fisicamente, a portata di mano? Come è cambiata la nostra strategia di risposta alla necessità di orientarci, di cercare informazioni da elaborare per scegliere e da rielaborare per giudicare? Come è cambiato il modo di raccontare storie attraversando e tenendo insieme il mondo dei praticabili con quello delle icone?
In Hamelin l’intreccio di linguaggi e forme fa accadere qualcosa che ha ancora molto a che fare con il gioco. A un certo punto il corpo del pifferaio sparisce e nel teatrino-carretto compare il burattino-pifferaio. L’attore gioca al personaggio e in una matrioska il personaggio gioca a rifare se stesso burattino. Un teatro dentro un altro teatro senza essere metateatrale. Quando il personaggio torna in carne ed ossa davanti ai nostri occhi quel corpo è ormai svelato nel suo essere teatrale: non solo persona, non solo attore, neanche soltanto personaggio. Nel frattempo avevamo già indossato le cuffie, avevamo già ascoltato qualcosa e anche quello spazio ormai era già diventato qualcosa d’altro.
Nei mesi trascorsi a casa la poltrona diventata divano e l’immagine del palco costretta nello schermo hanno provato a farsi riconoscere o rimpiangere ancora come il binomio necessario, dimensione e condizione di quella relazione che chiamiamo teatro. Roba vecchia? No, ma intanto intorno a noi tutto appare e diventa nel nostro mondo - ai nostri e alle nostre orecchie - al semplice tocco di un dito su un’immagine che non sappiamo dire bene dove si trovi. Quell’immagine è qualcosa che crediamo di toccare perché vista in uno spazio che non riusciamo più a considerare magico ma neanche a spiegarci del tutto; sotto il vetro, sopra il silicio e lo stagno, dentro la plastica, nella nostra mano?
Lo spazio che il pifferaio in carne ed ossa abita resta quello del gioco e ne esce allo stesso tempo. Siamo pronti ad attraversare quello spazio, sentiamo che possiamo violarlo abbandonando il nostro posto; sentiamo di dover abbandonare quel posto perché non lo percepiamo più come nostro. Non sono i nostri occhi e le nostre orecchie a non bastare più per farci sentire parte della vicenda, è lo spazio della scena e quello che contiene a non bastare più a sé stesso. È la realtà che ha bisogno di riconnettersi alla finzione, qui e ora. Come sempre, ma in un modo e in un mondo nuovo.
In ordine sparso: Zuckerberg crea un business chiamato Meta, Spielberg in Ready Player One ce lo aveva già raccontato benissimo, Baricco in The Game ha cercato di dirci la sua, Pirandello ride sotto i baffi guardando i nostri profili sui social network, ecc..
A un certo punto lo spazio di Hamelin è nostro, possiamo farlo nostro se vogliamo. Dipenderà da come ci sentiremo o da cosa sentiremo mentre guardiamo. Le cuffie, quindi, e un’altra domanda: l’ascolto condizionato dalle cuffie in cosa è simile e in cosa differisce dalla visione guidata dall’inquadratura in tutte le sue forme?
Qualche anno fa si tornò a discutere delle potenzialità estetiche e poetiche del cinema nella relazione tra movimento della cinepresa e movimento dell’attore, e dei conseguenti percorsi di senso che l’occhio dello spettatore avrebbe potuto costruire: l’attore segue il movimento dell’inquadratura o viceversa? E come cambia l’esperienza di chi guarda e ascolta?
Nel frattempo, già da qualche anno abbiamo sperimentato e giocato, prima a casa e poi a teatro o in contesti teatrali, con visori – sempre insieme a delle cuffie - per vivere esperienze di realtà virtuale in cui il corpo risponde a mondi che appaiono davanti e intorno a noi seguendo i nostri movimenti. Guardare per fare e fare per guardare. Un corpo alla volta.
In Hamelin le cuffie agiscono su più corpi alla volta. Le cuffie da sole. Roba vecchia ma non troppo: wi-fi e con la possibilità di tracce audio diverse e separate. Necessariamente diverse e separate. Non è poco. Piccolo particolare: abbiamo le palpebre per chiudere gli occhi ma non quelle per chiudere le orecchie. Non è poco e il pifferaio lo sapeva bene.
Così le orecchie vengono convocate e sparendo sotto le cuffie appaiono ai nostri occhi: quelle orecchie che non vediamo più negli altri ci riportano le nostre. Vedere un’assenza ci riporta una presenza. Non una nostalgia, non un ricordo: una presenza, quella del nostro corpo. Una cuffia per ogni spettatore: alcune illuminate di rosso altre illuminate di blu. L’occhio inizia a prendere confidenza con l’orecchio e quando ti accorgi che qualcuno ha scelto di consegnare a te e ad altri quelle rosse mentre ad alcuni altri quelle blu, inizi subito a cercare i “tuoi”: gli adulti sono quelli rossi e i bambini sono quelli blu. Due gruppi? Due squadre? Due tifoserie? Necessariamente due.
Il teatro disgrega la comunità o ragiona a partire da quella disgregazione?
Per ora tutti seduti, adulti e bambini. Tutto il pubblico dello spettacolo.
Uno spettacolo tout public? Uno spettacolo che ha bisogno di un pubblico di bambine e bambini di una certa fascia d’età non per tutelare o stimolare adeguatamente la loro età evolutiva, non per intercettare una certa parte del programma scolastico o del progetto educativo pensato per loro.
Serve l’età giusta per vivere e riconoscere una relazione. Non la relazione con il teatro, non con la storia, non tra pubblico e attore ma tra i bambini e gli adulti che condividono l’esperienza di essere spettatori sulla base di una relazione già esistente, ferita nel tempo recente e recentissimo e non ancora guarita. Almeno, percepita così da noi non nativi digitali.
Hamelin non è uno spettacolo che si preoccupa di proporre o consentire diversi livelli di lettura a seconda del bagaglio di esperienze e conoscenze legate all’età degli spettatori; neanche però relega genitori, zii e nonni al ruolo di adulti accompagnatori e custodi dei minori né i bambini al ruolo di “festeggiati”. Questo è uno spettacolo che restituisce la possibilità di osservare, vivere e rivedere dalla giusta distanza - una distanza prima esasperata e poi annullata - la relazione che viviamo quotidianamente con figli, nipoti, studenti.
Le cuffie ci dicono qualcosa sullo stare insieme e da soli nello stesso spazio che si sdoppia: svelano agli occhi lo spazio coprendo le orecchie. Ci lasciano parzialmente isolati e parzialmente ci immergono. Avete mai provato a cercare parcheggio o fare manovra in auto con il volume troppo alto provenire dall’autoradio o dal bluetooth? Lo spazio fuori dal parabrezza, quello oltre le orecchie, cambia e alcune cose spariscono dalla nostra vista. E chissà i bambini quale esperienza recuperano in questo isolamento immersivo. Forse i videogiochi che da qualche anno prevedono anche le cuffie e il microfono da gestire insieme a schermo e controller per condividere un’esperienza, un’ avventura, una partita con un compagno di giochi che può sedere dall’altra parte del mondo? Dov’è lo spazio di quel gioco, quale spazio si condivide? Chi è solo, chi sta insieme? Il campetto, il pallone, le ginocchia sbucciate non ci aiutano più a capire cosa vuol dire oggi giocare insieme. E a teatro?
Questo Hamelin ci suggerisce di lasciar stare la nostalgia se vogliamo evitare l’isolamento. Insegnanti e genitori, attori e spettatori, drammaturghi e critici: non possiamo permettercelo. Il rischio dell’isolamento è quello che ci insegnano i bambini in questo Hamelin. Quegli stessi bambini che a un certo punto vediamo effettivamente sparire. Si alzano, lasciano il posto di fianco a noi e vanno via con il pifferaio. Non ci sono più, non sono più con noi. Ora sono con il pifferaio: a un solo metro da noi, già lontanissimi ormai.
Perché? Fare una promessa è una scelta, mantenerla è un obbligo. I bambini lo sanno. E noi? Le promesse non mantenute non restano senza conseguenze e anche le conseguenze sono sempre frutto delle scelte. Il fato, il caso, la colpa? La storia di Hamelin è ancora un mistero anche per questo.

Non consoliamoci denunciando “i rischi della manipolazione” con corollario di complottisimi vari che portano a cercare, trovare o inventare il cattivo di turno. Troppo facile e troppo rischioso tenere separate emozione e ragione. L’emozione che porta i bambini a decidere di alzarsi e poi sparire seguendo il pifferaio nasce dentro una storia costruita, pensata e poi letta e riconosciuta proprio nella sua struttura. Una storia che si fa seguire, un personaggio che i bambini scelgono di seguire, alzandosi e abbandonandoci al nostro mondo. In quale mondo entrano? Rischiamo di non saperlo mai mentre loro lo stanno semplicemente vivendo.
Il coinvolgimento del pubblico in Hamelin si realizza nella coerenza della vicenda e nella realtà del personaggio che ha trasformato insieme a noi spettatori di ogni età lo spazio. I bambini decidono. Scelgono di alzarsi e allontanarsi. E a noi che siamo ancora seduti resta la riscoperta di quanto gambe e braccia siano parti dello stesso corpo che vede e sente, che parla, tocca e pensa. Intanto la tenda si richiude dietro al girotondo. Una tenda che non è più fondale, non vera quinta, mai stata sipario, ma ad un tratto nuova soglia, con buona pace di quella quarta parete che da tempo e tutti i giorni infrangiamo continuamente con un dito solo perché per vedere oltre adesso dobbiamo toccare.
Il finale? Un finale di laboratorio senza laboratorio. Un finale giocato sulla premessa del teatro: vedere e sentire non configurano mai una passività. Mai. Quel pubblico che diciamo coinvolto è stato coinvolto dalla propria capacità di guardare ascoltare e pensare per poi agire. Dov’è il trucco? La novità? Si chiama teatro. Lo spettatore fa. Vedere è fare. Da anni, e speriamo ancora a lungo, a teatro carnefici e vittime continuano indisturbati ad uccidere ed essere uccisi, sparire e poi riapparire per ricevere gli applausi e ricominciare il giorno dopo senza temere spoiler di sorta. Edipo si accecherà anche stavolta. Medea ucciderà i suoi figli anche stasera. Non c’è sorpresa. Ogni volta accade. Ogni volta il teatro succede.
In Hamelin i bambini tornano a riprendere i genitori che nel frattempo, seduti a guardare il vuoto rimasto, hanno iniziato ad accarezzare l’inquietudine che segue alla sorpresa e al mistero della sparizione. Un ritorno che ricostruisce un mondo nello stesso spazio da cui i bambini erano andati via ma che non è più lo stesso. Quando i bambini tornano con il pifferaio decidiamo di non restare isolati, vogliamo stare insieme. Nessuno è rimasto seduto a guardare per far sentire l’applauso. L’applauso non si sente ma si vede anche se le mani non sono libere perché ne stanno stringendo altre. Forse mani di altri figli, di altri nipoti, ma mai estranee.
Le considerazioni più o meno retoriche sulla comunità e sul rito? Un palliativo quando le cose non accadono. Quando il teatro non c’è, quando lo spettatore non lo vede.
Passa il tempo, i tempi cambiano con noi, a causa nostra, per nostra scelta ma il teatro è sempre lo stesso, succede sempre quando spettatori e attori si incontrano e si riconoscono, estranei prima ed estranei dopo, estranei dentro ed estranei fuori. Eppure lì, insieme. In Hamelin il teatro è successo.
Una rondine non fa primavera, ma quando ormai è primavera una rondine prima o poi arriva.
GIUSEPPE ANTELMO LA CASA DELLO SPETTATORE


GIOVANNIN SENZA PAROLE

Oltre ad Hamelin, Il Maggio all' Infanzia ci ha anche regalato un altro spettacolo che può anche affascinare i bambini più piccoli, non solo i ragazzi e gli adolescenti, cosa assai inusitata oggi nel teatro ragazzi italiano. Stiamo parlando di “Giovannin senza parole “ realizzato dai Tarantini del Crest su drammaturgia di Catia Caramia per la regia e le scene Andrea Bettaglio, interpretato, anche questo merce rara oggi, addirittura da 4 attori : Nicolò Antioco Ximenes, Andrea Bettaglio, Catia Caramia, Nicolò Toschi. Al centro della storia narrata vi è un paese, governato da un despota assoluto, padrone anche della grande fabbrica delle parole. In questo modo il padrone del villaggio, rappresentato come un enorme efficace pupazzo che sembra provenire dal nulla, può correggere a suo piacimento ogni tipo di frase, levando addirittura delle lettere, come potranno vedere i bambini, assistendo allo spettacolo. Purtroppo per il nostro dittatore, alla vigilia di un suo importantissimo discorso, arriva nel paese un giovane, che pur non spiaccicando nessuna parola, scombussolerà ogni cosa, riportando tutto alla sua giusta normalità. Ne viene fuori un divertente apologo dai contorni buffi, impastati di un sottofondo amaro, sull’ importanza della parola e sulla sua capacità di manipolare le persone. I quattro attori nel racconto mescolano la clownerie alla manipolazione di oggetti con la musica dal vivo, creando ogni volta attraverso appositi pannelli i vari ambienti dove è ambientata la trama, persino una fabbrica con tutti i suoi congegni. Uno spettacolo divertente e godibile nella sua immediata fruibilità.

BARBIE E KEN

Lo spettacolo senza dubbio più stimolante a cui abbiamo assistito a Monopoli, di una compagnia che tra l'altro non conoscevamo, è stato “Barbie e Ken” riflessioni su una felicità imposta, del Teatro La Fuffa /Fondazione SAT, su ideazione e regia di Filippo Capparella (la co-regia è di Saskia Simonet ) che è anche in scena con Letizia Buchini. Protagonisti dello spettacolo sono appunto Barbie e Ken, due bambolotti, come sappiamo, creati apparentemente a nostra somiglianza che però ad un certo punto, chiusi nella loro scatola, sfoggiando il loro forzato sorriso di felicità imposta dal mercato, incominciano a farsi delle domande. Abituati ad essere modelli perfetti e stereotipati per tutti i bambini, incominciano a chiedersi se sia davvero giusto così, se non sia sbagliato mentire ai cuccioli d'uomo, perchè l'essere umano non è così ed è giusto che i bambini lo sappiano. “Loro vivono per sorridere, lavorano, sudano, guadagnano il salario, per sorridere. Penano per sorridere, sono tristi per sorridere, muoiono. Per sorridere. E invece noi... abbiamo invertito la tendenza, noi il sorriso ce lo guadagniamo col sorriso.” Ed è così che Ken per rompere questa situazione che li vede solitari in due scatole diverse ad un certo punto piomba nella scatola di Barbie e vorrebbe abbracciarla, fare l'amore con lei ma capisce che qualcosa gli manca ed è per questo che chiede aiuto al pubblico. Gli stimoli e le domande che Ken piano piano riversa sul pubblico avranno forse delle risposte che lo invoglieranno ad uscire dal ruolo che gli è stato imposto e così succederà anche per Barbie. Scopriranno che l'amore è un portento che ha bisogno si di mecanismi naturali, certo, ma che devono essere anche collegati alle emozioni e che quindi hanno bisogno di essere rodati e vissuti. Quindi rimpiangeranno di essere quello che sono, di essere perfetti nella loro felicità tutta fasulla. Lo spettacolo, attraverso meccanismi ironici, mai banali, riesce anche a parlare ai ragazzi della strumentalizzazione imposta dalla società ai corpi e della stilizzazione di genere a cui vengono sottoposti sia i maschi che le femmine. Alla fine sarà dunque necessario ritornare da dove eravamo partiti, da Adamo ed Eva e da quella fottutissima mela. “Barbie e Ken” è uno spettacolo eccellente nel suo prezioso azzardo, da proteggere e inserire in un progetto mirato e condiviso tra ragazzi, genitori ed insegnanti.

Quasi a fare da contraltare allo spettacolo abbiamo assistito anche  a “Il bacio della vedova”di Israel Horovitz diretto da Teresa Ludovico, con Diletta Acquaviva, Michele Schiano DI Cola, Alessandro Lussiana, dove la sessualità è analizzata nella sua componente più estrema e violenta, attraverso il rapporto di tre amici, due uomini e una donna che si ritrovano dopo tanto tempo. Piano piano dal confronto dei tre si consuma la vendetta della donna per un fatto accaduto molti anni prima e di cui si erano apparentemente perse le tracce, perchè ritenuto marginale, ma di cui, come ogni sopruso fatto a una donna indifesa, bisognerebbe sempre rendere conto,magari non con una vendetta, come in questo caso,ma con le armi della giustizia .

MARIO BIANCHI



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