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Eolo
recensioni
LE RECENSIONI DI SEGNALI SECONDA PARTE
RECENSIONI DI ROSSELLA MARCHI, NICOLETTA CARDONE JOHNSON, CLAUDIO FACCHINELLI E ROBERTO ANGLISANI

Guarda le foto di Massimo Bertoni

ECCO LA SECONDA PARTE DELLE RECENSIONI CON LE FOTOGRAFIE DI MASSIMO BERTONI

Il respiro del vento / Cada Die Teatro Di Mauro Mou e Silvestro Ziccardi
Regia e collaborazione alla drammaturgia Alessandro Lay
Con Mauro Mou e Silvestro Ziccardi

Interessante produzione di Cada Die Teatro rivolta a bambini dai 6 anni d’età che vede nuovamente in scena i due bravi protagonisti dello spettacolo “Più veloce di un raglio”. Questa volta Mauro Mou e Silvestro Ziccardi si sono confrontati con una fiaba berbera che narra la storia di Alizar e del suo viaggio alla ricerca dell’acqua mantenendo la loro cifra che affianca alla narrazione a due una sapiente ricerca musicale. I due artisti infatti suonano strumenti della tradizione popolare e cantano anche utilizzando la straordinaria lingua sarda e ci raccontano di Alizar che vive in un piccolo villaggio vicino ad un grande lago, centro della vita degli uomini tutti blu perché tali diventano ogni qualvolta il cielo si specchia nel lago colorando di quel colore loro e le case. Ma un brutto giorno il lago si prosciuga e il saggio del villaggio decide che proprio Alizar avrebbe dovuto mettersi in viaggio per andare a cercare il modo per far tornare il cielo nel lago. Alizar saluta la sua amata Mounia scambiandosi con lei la promessa d’amore: lui promette di amarla sempre, lei che l’avrebbe cercato anche se di lui fosse rimasto soltanto un respiro. Un uccellino ascoltò le promesse e volò via. Alizar si mette quindi in cammino senza avere un’idea precisa di quale direzione prendere ma ben presto incontrerà due corvi che lo metteranno davanti ad un’unica possibilità per proseguire il suo viaggio: dovrà rispondere alla domanda “Da dove viene il vento?”. Alizar non sa la risposta e di conseguenza perderà prima le gambe e a seguire le braccia, il petto, gli occhi, la bocca e la testa. Ma il suo ultimo respiro lo affiderà all’uccellino che lo porterà alla sua amata che partirà in viaggio per trovare Alizar. Anche Mounia incontrerà i due corvi e riceverà la stessa domanda alla quale però saprà rispondere: il vento è il respiro di Alizar. Grazie al coraggio di Mounia si romperà quindi l’incantesimo e i due innamorati potranno tornare al villaggio dove finalmente l’acqua è tornata. La narrazione si snoda veloce nel gioco tra i due bravi interpreti e autori che alternano narrazione e musica in modo in alcuni momenti fin troppo incalzante, denso e inutilmente ricco. Talvolta infatti, la gestualità troppo insistita può distrarre lo spettatore che non riesce a seguire al meglio il racconto nonostante tutti gli elementi siano rigorosi e ben fatti. A tratti si cerca proprio quel respiro del vento protagonista del racconto, che lasci a chi guarda il tempo di assaporare tutte le perle disseminate nel cammino di questa storia.
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Viola e il bosco /Associazione Culturale S.T.A.R. - Storie Territori Arte Relazioni
Di Silvano Antonelli, Marta Zotti Regia di Silvano Antonelli
Con Marta Zotti

Si può camminare tutta la vita in 45 minuti? Avremmo pensato fosse impossibile prima di assistere a questo racconto. “Viola e il bosco” è uno spettacolo dedicato ai bimbi dai 6 anni ma, come gli spettacoli più interessanti, sa parlare a tutti. All’apparenza è semplice ma in verità lancia un sassolino nel profondo del pozzo che è in ognuno di noi. Mentre ascoltiamo la luminosa Marta Zotti attraversiamo i cerchi che raccontano il nostro esistere come se fossimo alberi. Uno ad uno osserviamo gli anelli che ci compongono perché la storia di Viola è la storia della Vita. Viola nasce ed è piccola come una castagna. Si trova in un bosco, il suo bosco. Potrà scegliere la direzione da prendere tra le infinite che il suo bosco propone e grazie a queste scelte Viola crescerà e attraverserà tutte le stagioni della vita: gli incontri, le scoperte, le relazioni, le difficoltà, i lutti, tutti i nodi della vita di un essere vivente da quando viene al mondo a quando lascia il testimone a chi ci sarà dopo di lui e che a sua volta comincerà un’altra storia. Colpisce l’essenzialità di questa narrazione. Nulla è superfluo, nessun dettaglio, parola, oggetto utilizzati. Tutto è stato scelto, sentito e regalato con cura nel testo dall’autrice/attrice in collaborazione con Silvano Antonelli che ne firma anche la sapiente regia. E’ interessante il taglio intimo che si è voluto dare al testo che si rivolge ad ognuno di noi nella dimensione della relazione che ciascuno ha con sé stesso. “Viola e il bosco” è un discorso interiore, è il ballo che si danza da soli, è il tempo dedicato ad accarezzarsi il cuore. La solitudine che richiama la visione non è manifesta ma è un’esigenza dello spettatore: porta la platea a guardare tutta nella stessa direzione ma allo stesso tempo costruisce una culla intorno ad ognuno dalla quale ciascuno potrà partire protetto per il proprio viaggio. Alla fine la scena è disseminata di tutti gli oggetti che Viola incontra nel suo percorso: il bosco è infatti pieno di cartelli che indicano direzioni diverse dietro i quali questi oggetti significanti si nascondevano. Ma quel disordine, che potrebbe sembrare caotico, lo spettatore che ha viaggiato con Viola lo ri-conosce: ogni cosa presente è infatti significativa, traccia il passaggio, aggiunge un tassello e si deposita nella vita di ognuno che si stratifica di consapevolezza. Marta Zotti, bravissima, piena di luce e di vita, ci lascia sulle sedie con un sorriso di consolazione, quella consolazione che arriva dalla comprensione di esser parte di un disegno grande dei quali siamo piccoli e necessari protagonisti e che si colora grazie ma anche nonostante ognuno di noi.
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Home Sweet Home – Cap. II L’Intruso / Residenza Idra / Roberto Capaldo
di e con Roberto Capaldo

Secondo spettacolo rivolto ai piccoli dai 3 ai 6 anni della trilogia “Home sweet home”, interessante progetto che nasce nella rielaborazione del materiale raccolto nel 2018 dopo la conduzione di laboratori teatrali sul tema della casa all’interno di una RSA, un dormitorio e un asilo per rifugiati. Dopo il primo capitolo “Casa dolce casa”, Residenza Idra ci ha regalato il secondo: un piccolo, prezioso racconto dal titolo “L’intruso”. I due capitoli sono talmente consequenziali da poter offrire anche una versione dello spettacolo che li comprenda entrambi. Scoiattolo, il nostro protagonista, si sveglia dopo una notte di pioggia con un’incredibile voglia di lamponi. Si mette in cammino, dunque, per soddisfare questo suo desiderio ma mentre è assorto nella sua ricerca ecco che si accorge che uno strano animale ha avuto proprio la sua stessa idea. Comincerà allora a seguire le sue impronte per trovare l’intruso. Il suo intento è quello di cacciarlo dal bosco. Nel suo viaggio di ricerca incontrerà molti amici animali che, alla richiesta di collaborare dicendo se hanno visto sconosciuti in giro, diranno al nostro protagonista di non aver effettivamente visto alcun animale strano. Scoiattolo, per nulla convinto, continua la sua ispezione nel bosco. E’ arrabbiato e intimorito: questa storia proprio non gli piace. Che ci fa uno straniero a casa sua, nel suo bosco? Potrebbe mangiare i suoi lamponi. Potrebbe entrare nella sua casa nel Grande Albero. E continua così a seguire le orme alla ricerca di indizi. Incontrerà un serpente, un ragno, un pesce gatto, una farfalla ma nessuno di loro saprà dirgli dell’intruso: nessuno in realtà l’aveva mai visto. Sconsolato Scoiattolo tornerà al cespuglio di lamponi. Ma con sorpresa si accorgerà che quello strano animale altri non era che sé stesso. Roberto Capaldo, autore e attore dello spettacolo, racconta questa storia in modo magistrale, facendo della semplicità il suo punto di forza. Non aggiunge nulla di superfluo né al testo né all’interpretazione riuscendo con la sua abilità a farci entrare in questa piccola poesia, grazie anche alle luci narranti di Iro Suraci che portano la drammaturgia e le musiche originali di Roberto Vetrano su cui si posano completamente a loro agio, parole e gesti.

ROSSELLA MARCHI

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Le avventure di Pesce Gaetano /Giallo Mare Minimal Teatro
Di e con Vania Pucci
disegni su sabbia Giulia Rubenni
animazioni video Ines Cattabriga

Nella fiaba originale - “Il pesciolino nero” di Samad Behrangi, autore iraniano avverso al regime dello Shah - si narra la sete di libertà di un pesciolino, stanco di nuotare sempre nelle stesse acque, che decide di lasciare la famiglia per vedere dove finisce la corrente. Questa scelta è criticata da familiari e vicini che lo considerano una testa calda in cerca di pericoli. In effetti, durante il suo viaggio il pesciolino s’imbatte in una serie di nemici, ma anche di figure interessanti che, in modi diversi, gli insegneranno a fidarsi ed a difendersi,a conoscere nuovi amici,a osare nuove avventure, a non avere paura . In una parola: a crescere. Lo spettacolo, narrato magistralmente dalla bravissima Vania Pucci (che firma la regia e la riduzione del testo ), è metafora della strada che ciascun bambino deve percorrere per diventare grande.
Prendendo spunto dallo spettacolo di più di 30 anni fa – sempre della stessa compagnia Giallo Mare – dedicato ai bambini dei nidi, Vania reinterpreta a favore di bambini leggermente più grandi la favola, unendo l'uso del “concreto” (i disegni con la sabbia di Giulia Rubenni) all' ”astratto” (le animazioni digitali di Ines Cattabriga) complice una scenografia efficace ed essenziale, formata da leggerissime scatole di varie dimensioni.
“Le scatole contengono le storie che in questo periodo di chiusura non possono venire raccontate” - si dice nel prologo - “ma le storie, se non le racconti, non esistono”. Così, con una narrazione piana ed efficace, coadiuvata dalla costruzione di luoghi diversi – grazie alla scenografia mobile, sulla quale vengono proiettate le immagini animate cui fanno da sfondo quelle create con la sabbia – il pesce Gaetano si getta nella cascata, attraversa il ruscello per giungere al fiume ed infine al mare nel quale, ricco delle esperienze vissute, si fermerà per iniziare una nuova vita.
Uno dei pochi spettacoli dedicati al pubblico dei più piccoli presente in Segnali, che con grande efficacia e semplicità mette in scena, in modo classico e innovativo al tempo stesso, un bel racconto di formazione.
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La rivincita /Teatrodistinto
Di Daniel Gol
Con Adrien Borrut, Patrice Bussy

Teatrodistinto, con questo nuovo spettacolo, ci mostra due sportivi (i bravi Patrice Bussy e Adrien Borruat, artisti formati alla scuola svizzera di Dimitri) diversi fisicamente fra loro, ma con un unico ovvio scopo: vincere.
L'allenamento ha inizio, ma com'è diverso Blu da Rosso (si tratta del colore della divisa che, da ora, sarà anche il nome del singolo personaggio). Blu è il più basso dei due, muscoloso, con un atteggiamento ed un allenamento molto “fisico”: piegamenti, corsa sfinente, sfoggio di “maschia forza”; Rosso è alto, longilineo, etereo: il suo allenamento consiste in espressioni francesi, brevi movimenti da allenamento alla sbarra, aggraziate e femminili mosse di mani e braccia .
Si darebbe per scontato che sarà Blu a vincere la gara sportiva; invece è Rosso il vincitore, con grande disperazione di Blu che non riesce ad accettare la sconfitta, mette a soqquadro il campo, e piange. Rosso, dopo momenti ed azioni di esultanza, lo consola e gli offre la rivincita, che Blu – rasserenato e grato – accetta subito, cominciando a ripulire il terreno di gioco da quanto ha buttato in giro.
Dedicato ad un pubblico dai 4 anni (ma anche ai più grandi e, forse/si spera, agli adulti che li accompagneranno a teatro e forse si rivedranno come genitori incalzanti i propri pargoli nelle partite) “La rivincita” analizza sia gli stereotipi sportivi proposti dai media (che qui vengono smontati), sia le parti che coesistono all'interno di ciascun essere umano, indipendentemente dall'età e dal genere, apparentemente contrastanti. Abbiamo tutti una parte maschile ed una femminile, dolcezza e forza, aggressività e pazienza; emergono in momenti differenti, ma fanno sempre parte di noi.
Nello spettacolo Blu è mostrato come forte,maschile e rozzo, in contrasto con la gentile e femminile cultura di Rosso (che qui parla un raffinato francese). Ed è Rosso a vincere, quasi a sottolineare che gentilezza e cultura non sono sinonimo di debolezza, contrapposte a forza che non deve essere sinonimo di arroganza. Blu, quando perde, da prima si arrabbia e distrugge quanto ha intorno, ma in seguito si mostra fragile (secondo i suoi canoni) mettendosi a piangere ; l'offerta di una rivincita lo rappacifica con il rivale e con il gioco (come spesso succede ai bambini...e non solo a loro!).
Come andrà a finire?
Daniel Gol, che ha curato la drammaturgia e la regia (e anche scene, costumi e disegno luci), non ce lo dice, ma lascia intuire che i due contendenti qualche cosa hanno imparato. Ed anche gli spettatori, si spera.

NICOLETTA CARDONE JOHNSON
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I 124 secondi
produzione Teatro Telaio
autore Angelo Facchetti
cast Alessandro Mor, Alessandro Quattro


Alberto Manzi: Storia di un maestro Tib Teatro
di Daniela Nicosia cast Con Marco Continanza e Massimiliano Di Corato
scene Bruno Soriato disegno luci e suono Paolo Pellicciari
immagini video Mirto Baliani


Scateniamo l'inferno! MTM Teatro Litta
di e regia Valeria Cavalli, Claudio Intropido
Con Andrea Robbiano e Antonio Rosti

Arturo /Nardinocchi/Matcovich
di e con Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich
scenes Fiammetta Mandich sound design Dario Costa

All’inizio dell’adolescenza le ragazze e i ragazzi già cominciano a frequentare il teatro degli adulti. Sorge naturale una domanda: ha senso, anche per loro, una produzione teatrale mirata? Credo la risposta possa essere affermativa. È infatti, questo, il momento in cui l’educazione alla specificità del linguaggio del teatro può coniugarsi liberamente con contenuti vicini alle esperienze importanti della loro età: la scoperta della dimensione affettiva e sessuale; il confronto – e il contrasto – fra le generazioni; ma anche l’affacciarsi di domande sui grandi temi della cultura, sui dibattiti che agitano la cronaca, sugli eterni interrogativi esistenziali.
Quanto segue intende riferire su alcuni spettacoli, proposti durante la XXXI edizione di Segnali, tenutasi quest’anno dal 28 giugno al 1° luglio, rivolti a questa particolare fascia di età.

Solo apparentemente periferico il tema affrontato da 124 secondi (Teatro Telaio), che rievoca una epocale contesa fra due grandi pugili. L’uno è Joe Louis, primo detentore afroamericano del titolo di campione mondiale dei pesi massimi, simbolo della democrazia occidentale ed emblema dell’emancipazione razziale; l’altro è Max Schmeling, alfiere del nascente nazismo, che avrebbe dovuto incarnare la superiorità fisica e morale della razza ariana. Il tutto si svolge alla vigilia della seconda guerra mondiale che, di lì a poco, avrebbe infiammato il mondo intero.
La vicenda si articola in due combattimenti, evocati con grande coinvolgimento dai due interpreti, Alessandro Mor e Alessandro Quattro, a loro agio nella pluralità di ruoli che la drammaturgia e la regia di Angelo Facchetti cuce loro addosso: narratori, cronisti appassionati di parte, addirittura pugili.
Ma quella che poteva risolversi nella storia edificante di due atleti, avversari sul ring, ma divenuti amici nella vita, offre al pubblico adolescente qualcosa di più: l’occasione di esplorare una stagione storica e culturale lontana da loro: gli anni Trenta; e di scoprire, sulla scena, oggetti d’antan poco frequentati dai ragazzi di oggi: i calzoni alla zuava, le mezze maniche nere, tipiche degli impiegati del tempo; un vecchio apparecchio radio; e poi ancora la musica e i balli, eseguiti con caratura professionale da Alessandro Mor.
Ma dove ancor più si apprezza l’originalità dello spettacolo è nella resa del combattimento finale. Rinunciando ad un improbabile realismo, la regia ricorre al registro simbolico, e la disfida si risolve in una efficace partitura di teatro danza, ove i due contendenti, il braccio teso simmetricamente allacciato al polso dell’altro, evocano, quasi staticamente, la tensione di un’immane scontro fra titani, fino alla caduta di uno dei due. E l’etica del messaggio si coniuga con l’estetica del linguaggio teatrale.
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Una connotazione storica caratterizza anche Alberto Manzi: storia di un maestro di Tib Teatro di Belluno, testo e regia di Daniela Nicosia: un omaggio alla memoria di un umile ma importante protagonista della crescita culturale del nostro paese. Anche in questo caso, il suo nome è probabilmente sconosciuto alle nuove generazioni, e specialmente ai bambini (lo spettacolo è rivolto a un pubblico dagli otto anni). Per quelli che hanno la mia età, la conoscenza del personaggio risale a una trasmissione televisiva nata all’inizio degli anni Sessanta. La Rai, che al tempo trasmette solo in bianco e nero, chiama il maestro Alberto Manzi a tenere, in orario preserale, una serie di trasmissioni dal titolo "Non è mai troppo tardi", finalizzate a contrastare un analfabetismo, ancora notevolmente diffuso nel nostro dopoguerra, specie nel Sud. Un numero imprevedibile di persone si incollano al piccolo schermo: non solo anziani, determinati a leggere e a scrivere, ma anche bambini in età addirittura prescolare, affascinati dalle innovative e accattivanti tecniche pedagogiche del maestro Manzi.
Si tratta, in fondo, di una DAD (didattica a distanza) ante litteram, della cui forza di penetrazione ci rendiamo conto apprendendo dallo spettacolo in quali trincee, e sostenuto da quale inossidabile fede ha maturato la sua pedagogia.
L’azione, alternata a momenti narrativi, si svolge principalmente nel carcere minorile “Gabelli” di Roma, e ci parla del rifiuto dei giovani emarginati nei confronti di quell’uomo mite e perbene, disposto però anche a scontrarsi fisicamente con i più riottosi. Ci parla dell’ottusità dell’istituzione scolastica, incapace di cogliere le spinte innovative proposte da Manzi, sistematicamente costretto a trasgredire una miope le normativa.
Ma il pericolo di una commovente agiografia viene esorcizzato, non solo da una cifra attorale mai corriva, ma anche e specialmente dall’attenzione alla fattura. Per tutto: la sobria, sghemba scenografia di Bruno Soriato, sulla quale Mirto Baliani proietta oscure immagini che sembrano alludere alle Carceri d’invenzione di Piranesi; ma specialmente l’assordante, reiterato sbattere delle cancellate di ferro, inquietante sottolineatura della distanza incolmabile che separa dal resto del mondo chi è confinato in un penitenziario.
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Era quasi prevedibile che, nel settimo centenario della morte di Dante, il teatro ragazzi si misurasse col Sommo poeta; meno scontato che l’operazione non si risolvesse in un centone didattico, da ammannire agli incolpevoli studenti delle scuole.
Nel DNA di Quelli di Grock (ora Manifatture Teatrali Milanesi), c’è da sempre una vocazione educativa di altro profilo, e non stupisce che Valeria Cavalli e Claudio Intropido, con "Scateniamo l’inferno", abbiano colto a volo l’occasione, anche sulla scia di un’analoga, riuscita operazione su Giacomo Leopardi, Fuori misura, realizzata qualche anno fa.
Ciò che in quel lavoro era un esilarante a solo di Andrea Robbiano, in questa sorta di sequel si declina in un duetto con Antonio Rosti, duttile interprete della precedente generazione, qui impegnato nell’ambigua, polimorfa figura di un bidello, quasi reincarnazione di un antico professore di italiano di Andrea, il supplente di prima nomina che deve affrontare la sua nuova classe con una lezione su Dante.
Secondo la formula felicemente sperimentata con Leopardi, lo spettacolo non entra immediatamente in argomento, ma ci mostra inizialmente una schermaglia fra l’anziano bidello e il giovane, spaesato principiante. Gustoso il tentativo di strizzare l’occhio agli stilemi espressivi propri della cultura giovanile, con una versione rap del primo canto dell’Inferno, dove Robbiano recupera la sua verve di stampo quasi cabarettistico.
Poi, a mano a mano che al simulacro del bidello si sovrappone l’autorevole figura dell’anziano studioso, che incoraggia con affettuosa saggezza il giovane collega, la parola di Dante esplode in tutta la sua trascinante potenza, corredata dagli strumenti tipici della scena: luci, suoni, che trasformano una lettura interpretativa in un evento teatrale a tutto tondo, di apprezzabile spessore culturale e didattico.
L’uso dei social media è entrato in modo invadente anche nel mondo del teatro ragazzi: ora attraverso il filtro critico dell’ironia; ora come elemento connaturato al linguaggio teatrale e come strumento di interazione col pubblico. Ne sono esempio altri lavori, per lo più rivolti alla fascia adolescenziale, di cui si riferisce altrove.
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Sfugge decisamente a questa tendenza Arturo, scritto, diretto e recitato dalla coppia Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich, la cui struttura interattiva, a differenza di altri spettacoli, non fa ricorso al telefonino (ormai utilizzato dai bambini di ogni età), bensì alla carta, alla penna, a grandi tessere di puzzle, sulle quali alcuni spettatori sono invitati a scrivere col gessetto bianco, e che si ricomporranno su una sorta di grande lavagna magnetica, creata dalla scenografa Fiammetta Mandich.
“Arturo ha un’isola. Arturo è un’isola. L’isola di Arturo. L’isola di Arturo è un racconto. Il racconto di un figlio”, spiegano a due voci gli autori/interpreti, seduti in proscenio, senza l’ausilio di alcuna protesi sonora.
“Arturo è la prima stella che si vede al tramonto,” proseguono. “Le stelle nascono, vivono, muoiono. Proprio come i padri. Morendo lasciano dei residui. Proprio come i padri. Il nostro residuo è la memora”.
Dopo avere dichiarato con onestà di non essere attori (hanno infatti una formazione rispettivamente registica e drammaturgica, non attorale), seguendo un percorso interattivo, in parte aleatorio, Laura e Niccolò ci parlano di loro stessi; della perdita del padre; di un duplice, autentico lutto che ha colpito entrambi.
Si dice che, di regola, la creazione artistica, anche quando nasce da vicende personali, richieda una presa di distanza, una rielaborazione creativa. Così fa Dante, quando ci parla della “selva oscura” in cui ha smarrito “la diritta via”. E così fa Ugo Foscolo, rifacendosi a Catullo, nella poesia In morte del fratello Giovanni.
Laura e Niccolò saltano, vorrei dire spudoratamente, questo passaggio, senza neppur pretendere di mediarlo attraverso una tecnica attorale che, in effetti, rivela a tratti una certa naïveté. Ma proprio da ciò scaturisce il fascino di verità di uno spettacolo che riesce a infrangere il tabù della morte, a parlarne con disarmante semplicità, senza mediazioni tecnologiche, anche a ragazzini appena usciti dalla scuola primaria.
Claudio Facchinelli
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Abbiamo chiesto al maestro Roberto Anglisani di darci il suo prezioso sguardo su due " piccoli studi"che diventeranno spettacoli a tutti gli effetti di tre raccontatori, usciti del progetto di Guido Castiglia sulla narrazione  " Vox Motus"

Vox Motus – A SEGNALI 2021

#Fragili
produzione La Baracca - Testoni Ragazzi
Una storia di accettazione e coraggio
di Margherita Molinazzi
con Margherita Molinazzi e Matteo Bergonzoni
attori e autori de La Baracca – Testoni / Bologna
coordinamento drammaturgico e collaborazione alla messa in scena Guido Castiglia


Fiori d'ortica, storia di un incontro tra due ortiche in fiore
produzione Nonsoloteatro
di e con Sara Moscardini
coordinamento drammaturgico di Guido Castiglia
collaborazione alla messa in scena di Guido Castiglia e Alessandro Rossi





Tre giovani attori vestiti di nero, tre sgabelli, il corpo, la voce ed è tutto ciò serve.Sono allievi del laboratorio Vox motus che Guido Castiglia ha tenuto per tre anni a Torino con l’intenzione di trasmettere l’esperienza dei suoi 40 anni nel teatro di narrazione.
"Fragili e Fiori d’ortica" raccontano storie di adolescenti in balia di cambiamenti, legami e sentimenti.
Appena cominciano capiamo che utilizzeranno il loro corpo per dare vita a tutti i personaggi e capiamo che appoggeranno il lavoro sulle loro esperienze personali.
Quello che vediamo sono “piccoli studi”, come li chiama Guido, spettacoli non ancora finiti a cui manca il lavoro di sviluppo e approfondimento delle situazioni.
Sara Moscardini, Matteo Bergonzoni e Margherita Molinazzi si sono approcciati al linguaggio della narrazione in modo fresco, leggero e soprattutto vero, perche il loro corpo, le espressioni del viso, il tono della voce non erano artificiosi ma legati alla verità di quello che stavano raccontando. Non si preoccupavano di creare cose originali e spettacolari perché hanno imparato che la verità, in un linguaggio come la narrazione, è ciò che di più spettacolare si possa vedere.
Le intenzioni arrivavano chiare, i personaggi già lavorati e abbastanza definiti si muovevano con una certa precisione che derivava da una chiara consapevolezza di quello che gli attori volevano raccontare. Consapevolezza che si può raggiungere solo dopo un lavoro serio.
A volte sembravano dei cavalli trattenuti con le redini; l’energia invadeva i loro corpi e volevano subito dirci tutto, raccontarci tutto, farci vedere tutto.
Guardandoli era impossibile per me non pensare al lavoro di Guido Castiglia, non vedere le peculiarità del suo modo di raccontare, ma non si aveva mai la sensazione che gli attori-narratori fossero un clone di Guido.
Ho apprezzato molto la sua idea di organizzare un laboratorio di tre anni per trasmettere a giovani attori la sua esperienza artistica. Considero questa iniziativa dotata di grande valore etico.
Spero che i tanti protagonisti presenti nel teatro ragazzi trovino ciascuno il proprio modo per lasciare in eredità a giovani artisti il sapere teatrale accumulato in anni di esperienza.
Voglio spendere ancora due parole sulla narrazione.
Un linguaggio che anche in questa edizione di Segnali 2021 è stato molto presente. In più di uno spettacolo abbiamo visto registi e compagnie utilizzare la narrazione per raggiungere gli scopi artistici che si proponevano; abbiamo visto attori utilizzare questo linguaggio per arrivare più a fondo nella realtà dei personaggi che raccontavano e abbiamo visto come il linguaggio narrativo riesca scatenare un processo empatico nello spettatore.
Credo che le giovani generazioni abbiano estremamente bisogno ciò e la narrazione può essere uno strumento molto efficace per una educazione all’empatia.
ROBERTO ANGLISANI








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