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Eolo
recensioni
"Colpi di scena" le recensioni degli allievi del corso "Attore autore"
IL CORSO E' ORGANIZZATO DA ACCADEMIA PERDUTA E DA DEMETRA FORMAZIONE CON IL CONTRIBUTO DELLA REGIONE EMILIA E ROMAGNA

TEATRO DELLE BRICIOLE SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI

ROSSO CAPPUCCETTO

Lo spettacolo Rosso Cappuccetto, realizzato dal Teatro delle Briciole, sotto la regia di Mirto Baliani e di Emanula Dall'Aglio cui ho assistito al Teatro Rossini di Lugo in occasione del Festival di Teatro per Ragazzi “Colpi di Scena “, ci riporta nel fiabesco mondo dei fratelli Grimm, non senza esplorare in modo originale e dinamico i topos che hanno permesso a questa fiaba una storia così longeva e continuamente reinterpretabile.

Cappuccetto Rosso, dunque, come di consueto, deve recarsi dalla nonna attraversando il bosco, ma in questo caso non solo i personaggi, bensì gli stessi bosco e casa della nonna, sono direttamente manovrati dalla Dall'Aglio, la quale letteralmente indossa la storia, in simbiosi perfetta, tra scenografia e animazione, davvero accattivante.

Unica attrice, farà affiorare dal grande abito-montagna, sotto cui è nascosta, i burattini protagonisti, alternando dialogo e narrazione, e variando gli stessi burattini usandone di più grandi o di più piccoli a seconda della scena, escamotage che sottolinea a mio avviso la sempre plurima natura umana, l'impossibilità di determinarla univocamente: Cappuccetto è piccola all'inizio, prima del suo rito d'iniziazione, molto più grande poi, estratta finalmente dalla pancia del lupo.

Molto riuscita l'evocazione dell'angoscia che il bosco come luogo metaforico e simbolico delle nostre paure più ancestrali, risveglia in noi, unitamente al lupo, nero, enorme, di cui le lunghe zampe pelose sembrano abbracciare tutta la montagna, tutta la scena, tutta la vita.

Si crea un vivace contrasto tra la tensione e l'ingenuità di Cappuccetto, che si rivolge al lupo senza timore, inconsapevole o più probabilmente con la forza dell'infanzia, che, ancora quasi sospesa tra l'essere e il non essere, teme di meno il folto nero della morte, forse perchè il dopo la morte non è poi così lontano dal prima della vita, ed i bambini, si sa, ne sono terribilmente affascinati.

Ecco allora che anche il lupo non è solo spaventoso, ma anche accattivante, rappresenta quell'Altrove, quel Diverso che tanto attrae i bambini proprio perchè capace di aprire per loro quelle Porte che mamma e papà nei loro ruoli non potrebbero, eticamente, mai aprire.

E' proprio non nascondendo la verità di queste emozioni che lo spettacolo della Dall'Aglio si rivela autentico, ci cattura nella sua magia di cui cogliamo quei luoghi letterari e quelle mappature dei sentimenti che ci rimettono in contatto col nostro fanciullino, perchè solo lui può affidarsi al lupo e scegliere di non percorrere l'abituale strada conosciuta, ma di esplorarne una nuova, per arrivare a scoprire che forse, alla fine, il perturbante sta proprio nel trovare lo sconosciuto, l'estraneo, dentro a ciò che di più familiare, rassicurante c'è.

La scenografia, compatta, viva, sottolinea, allora, proprio la circolarità tra Cappuccetto, la nonna, il bosco ed il lupo, tutte parti di una stessa assurda strada che ci porta a tu per tu con l'ammissione delle nostre zone d'ombra, dalle quali dobbiamo essere fagocitati, mangiati, prima di poterne uscire.

Solo dopo essere stata tra le viscere del lupo in compagnia della nonna, Cappuccetto potrà essere salvata dal cacciatore. Cacciatore che, in questo spettacolo, rivelerà una simpatica variazione sul tema, che contribuisce al riuscito gioco di tensione continuamente provocata e smorzata.

Così come materica è la narrazione, verde come gli alberi, rossa come le fragole che sono lucine colorate, materica è anche la sua presentazione, dove vengono fatti sfilare, come reperti, gli oggetti protagonisti: dal sasso alla torta di mele, figure potenti che i bambini possono in questo modo osservare da vicino alimentando una curiositas che diventa quasi scientifica, che sembra volerci dire: Attenzione! Sarà pur una fiaba che tutti conosciamo quella cui state per assistere, ma i segreti che ha da svelarci posssono essere ancora tanti, e per scovarli dobbiamo prepararci in anticipo, come degli investigatori.

SONIA MELE

Il lavoro di Emanuela Dall’Aglio, diretto insieme a Mirto Baliani, si presenta con totale sincerità e pulizia come una generosa celebrazione del potere simbolico della Fiaba.

E’ in quella dimensione di umiltà e creazione artigianale che si accetta, senza alcuna remora, di iniziare con lei quel viaggio, quasi rituale, nel quale guida, sin dal prologo, il pubblico. Cattura, con riferimenti puntuali e divertenti agli oggetti delle fiabe, mostrandoli, rendendoli riconoscibili e, affidandosi al loro valore simbolico, guida lo spettatore dentro la storia, in un passaggio quasi naturale tra realtà e finzione, nel quale non ci si sente spinti ma si decide di andare, liberamente e con curiosità, dimenticando che già si conosce ciò che accadrà.

Una regia precisa e pulita, musiche e luci ben calibrate ed una fascinazione mai ostentata fanno sentire, con chiarezza rara, che lì sta vivendo una storia.

Questo essere, dentro, sopra e attorno al quale tutto accade, diviene luogo indiscusso dell’immaginario, dove tempo e spazio si accordano ad una verità antica che risuona senza presunzione nell’animo umano e che ci accompagna fino alla fine del viaggio, della storia, della magia.

CHIARA BALESTRI



TEATRO DUE MONDI

I MUSICANTI DI BREMA


Quattro animali e una carrozzina. Tanja Horstmann, Angela Pezzi, Maria Regosa, Renato Valmori sono i quattro attori che incarnano i personaggi de “I MUSICANTI DI BREMA” del Teatro Due Mondi. Una compagnia che si propone da anni di rappresentare un teatro focalizzato sulla figura dell’attore, in una costante ricerca tra strada e teatri, che ancora una volta ne dimostra la validità.

Lo spettacolo è all’aperto, con una scena molto semplice, un piccolo separè che fa da sfondo e da quinta utile agli attori, un telefono, e un altarino per il compianto Gallo. Basta. Lo spettacolo è completamente consegnato agli attori, che attraverso gag comiche e canzoni, ci raccontano l’impresa di questa Compagnia e di una Cicogna, incontrata per caso. La missione di quest’ultima, consegnare un bambino a Madame Europe in Via dell’Ospitalità, diventa la missione di tutto il gruppo, nonché il pretesto per parlarci del desiderio di un’Europa più ospitale. L’operazione affatto retorica o ridondante, è di una comicità intelligente e di una sapienza teatrale di alta qualità. La cura dei dettagli (di oggetti e costumi), l’interazione puntuale fra gli attori, e l’equilibrio costante tra l’azione scenica e il messaggio sotteso, fanno di questo spettacolo un ottimo esempio di teatro rivolto anche ai più giovani, in cui l’ironia ci trasporta lentamente dalle scena delle vicende rocambolesche di questi quattro personaggi, alla nostra scena Europea. Prendendo posizione certo, ma solo con un’ultima canzone.

ANNALISA SALIS



RESIDENZA IDRA/REBELOT

POLLICINO E L'ORCO



Lo spettacolo si apre con delle immagini su un telo. Una voce narrante racconta gli episodi. Davanti abbiamo delle piccole scene della fiaba di Pollicino. Il tutto fino a questo punto è magico, incantato. Si ha come una dimensione da lanterna magica.

Ad un tratto poi lo spettacolo subisce una brusca rotta. È da questo momento preciso, da quando cioè lo spettacolo ipotizza l’incontro futuro tra Pollicino, ormai grande e virgulto, e l’Orco, in bilico tra la redenzione e il pentimento, che la struttura narrativa e attoriale si indebolisce.

Assisteremo, infatti, a una valanga di gag e di scene inframezzate da stacchetti musicali, solo mimati, che hanno lo scopo solo di intrattenere. Lo scopo dei due attori è di strappare solo la risata, grassa, costante, interminabile. E ci riescono bene. I due attori sulla scena stabiliscono una bella empatia tra loro. I tempi comici sono perfetti. Noi però siamo dell’avviso che questo non è sufficiente per parlare di Teatro. In questo spettacolo manca un’analisi profonda della relazione tra l’Orco e Pollicino. Manca il viaggio è un immaginario che superi la realtà.

Insomma l’Orco e Pollicino è un buon spettacolo per passare un’oretta spensierata. Finita quella non resta più nulla, se non il solletico delle risate.

CAMILLO ACANFORA




Dal titolo si può pensare ad una rivisitazione della famosa fiaba. In realtà Roberto Capaldo, compie una mossa astuta che gli permette di essere molto più libero (e quindi forse più fedele a se stesso), presentandoci un vero e proprio sequel, denso di azione e sorpresa ma anche di pura umanità.

Perché nel Pollicino di Roberto Capaldo e nell'Orco di Walter Marconi sono percepibili tutte quelle sfaccettature primordiali e spesso scomode, che mai abbandonano l'animo umano: rabbia, rancore, invidia, senso di solitudine, egoismo, possesso, paura del diverso, auto affermazione, vanità. Tutti questi sentimenti sono colori a disposizione dei due attori che con grande impegno talvolta accennano con un pennello sottile, talvolta lanciano con le mani, creando sprazzi di esilarante passione.

L'Orco rimugina da tempo la disfatta subita per mano di Pollicino. Il danno morale è stato grande ma da esso non si è lasciato sopraffare. Anzi la sconfitta gli ha permesso di compiere un lungo percorso di riabilitazione e rivisitazione del proprio io, tanto da sentirsi pronto per un incontro chiarificatore con Pollicino divenuto ormai grande e famoso, nonché alquanto vanesio.

Una cena a casa dell'Orco è l'occasione, la restituzione degli stivali è il pretesto. Da qui in poi i momenti di pathos, comicità e paura si avvicendano senza sosta, in un turbine ammiccante e per questo coinvolgente. Alla diffidenza scaturita dal passato si mescola un intreccio di malizia e continue incomprensioni tipiche di un certo stile comico.

Roberto e Walter strappano tante risate ai bambini grazie ad una vena auto ironica, ma molte di più agli adulti, grazie ai doppi sensi di cui si servono durante tutto lo spettacolo.

Il finale deve essere rigorosamente top secret.

Menzion d’onore per Walter Marconi, perché si amalgama con sapienza alla presenza scenica partenopea di Capaldo e ci mostra con efficacia un Orco attraversato da contrasti interiori dirompenti ma spesso anche sottili, rappresentativi del dilemma tra l'affermazione della propria vera natura e quindi una conseguente solitudine, e la richiesta di omologazione da parte della società e quindi una vita in cattività. Tema sempre attuale con il quale i giovani si devono scontrare sin da tenera età. Purtroppo.

GIORDANO BOSCHI



ALESSANDRO SERRA/ ACCADEMIA PERDUTA

H+G


La lacuna di H+G

Com’è affascinante e felice la forma di essere che lor signore

hanno scelto! Come è bella e semplice la tesi che è stata loro concesso

di esprimere con la propria vita! E con quale maestria, quale

finezza assolvono questo compito. Se, abbandonando ogni rispetto

per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei:

«Meno contenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il

mondo questa diminuzione di contenuto! Un po’ più di modestia

nelle intenzioni, un po’ più di sobrietà nelle pretese, signori demiurghi,

e il mondo sarebbe più perfetto! » (Le botteghe color cannella, Bruno Schulz)



Così appare la scena di H+G: il pubblico disposto su due spalti speculari, un corridoio coperto di lastre di acciaio. Da un lato l’uscita verso le quinte, dall’altro solo un foglio di lamiera. Se dovessimo trasporlo in retorica, il teatro di Alessandro Serra sarebbe sicuramente la figura dell’ellissi, dell’omissione di termini che sia possibile sottintendere.

Lo spettacolo è un tributo alla sottrazione: riduzioni di parole, contrazioni di testo, eliminazioni di azioni, abolizioni di scenografia. Allora ogni oggetto si fa simbolo, ogni gesto archetipo, ogni frase proverbio: è un gesto mancato l’assenza di cibo in casa, una luce che illumina sapientemente i rami la fuga nel bosco, un tratto di gessetto bianco su una lastra di metallo la casa, un’ombra la madre/strega che non può più fare male. E la paura, la fame, il freddo dell’abbandono e della foresta si fanno materia, facendo attraversare dai due protagonisti una trama fatta di ferro, ruggine, legno, ceramica, paglia, metallo,.

Persino i vestiti sono stilizzati, ricordano un tempo impreciso che potrebbe essere la fine del 19° secolo o i giorni presenti.

H+G (sottrazione che ci suggerisce anche il titolo) è uno spartito preciso di formule, numeri, rituali comune ai vangeli, alla poesia, alla fiaba in cui il regista si muove con estatica precisione. Serra crede sicuramente alla bellezza, crea dunque con essa e ne trae concreti prodigi, avvicinandosi così alla fiaba, al rito iniziatico.

Qualcuno ha detto che il grande stile accenna, non descrive, “perché obbliga l’anima a una continua azione per supplire ciò che il poeta non dice, per terminare ciò ch’egli solamente comincia, colorire ciò ch’egli accenna, scoprire quelle lontane relazioni, che il poeta appena indica” (Zibaldone, 2055).

Perché lo spettacolo tace volontariamente? Perché è proprio la soppressione che crea bellezza. Nei gesti iconici crudi e puri la lacuna ha il suo massimo effetto, e il viaggio –iniziatico, come la fiaba di Hansel e Gretel- sta allo spettatore, che segue i sassolini lasciati dai due protagonisti.

L’esperienza che fa lo spettatore è completare ciò che viene solo accennato; la penombra, infatti, caratterizza la scena: idee destate e non espresse pienamente, come lampi che moltiplicano i vuoti e non si riempiono.

Non dire tutto, fare un po’ di silenzio è allora felicità della rinuncia per la libertà dello spettatore: per fare questo ci vuole particolare cura e fiducia del futuro.


Nota a margine: Erodoto racconta che quando Dario, re di Persia, decise di invadere Atene, per prima cosa mandò una spia per capire la forza degli ateniesi. La spia trascorse alcuni giorni ad Atene e poi tornò dal re a riferire: non aveva visto palazzi, ricchezze o torri dorate, ma era rimasto colpito dai buchi che caratterizzavano la città: spazi vuoti, lacune, dove confluivano centinaia di persone. Dario restò sconcertato e pensò che Atene dovesse essere una città fragile se non aveva i mezzi per esibire la sua potenza. Così pensò di invaderla. Coi risultati che ci sono noti. In realtà quelli che i persiani decifravano come buchi erano la forza della città: i luoghi d’incontro della democrazia. L’agorà e il teatro erano due di questi. Un ateniese del V secolo non poteva pensarli come luoghi distinti. Per lui erano parte di una stessa idea: una piazza in cui si potevano dibattere le idee; un’arte, quella drammatica, dove due punti di vista contrapposti potevano confrontarsi, scontrarsi aspramente e trovare conciliazione.

Elena Zagaglia



ACCADEMIA PERDUTA

Jack e il fagiolo magico

Gli oggetti cannibali.

Fin dal primo momento, ancor prima che gli attori abbiano solcato la scena, questa è ingombra di oggetti. Ovviamente, questo non è un problema a livello estetico. Tutt’altro. Per il Teatro tutto ciò che ingombra la scena è interessante.

In “Jack e il Fagiolo magico” ciò non accade. Gli oggetti ingombrano solamente. Tralasciando che fin da subito non si può non avere un dejavù, poiché si ha come l’impressione di rivedere il “Pollicino interpretato dallo stesso Claudio Casadio, quello che colpisce è che gli oggetti anziché di avvalorare l’azione degli attori la soffocano. Sono gli oggetti a primeggiare. Sono questi i veri protagonisti dello spettacolo. Al contrario, invece, sono gli attori a essere relegati a meri oggetti. Si ha questa impressione non tanto per una loro incapacità, anche se la loro performance non è delle più brillanti, quanto appunto per quest’ossessione dell’oggetto. Ossessione, che oltre a plasmarsi sulla scena per la continua e reiterata chiamata in causa degli oggetti presenti, si manifesta soprattutto in termini di dimensioni. Gli oggetti sono eccessivamente grandi, in primis quella scarpa. Quasi non se ne comprende l’utilità di tale enormità.

A fine spettacolo sorge una domanda: chi ha recitato? Gli attori o gli oggetti?

CAMILLO ACANFORA


FERRUCCIO FILIPPAZZI

Rifugi.

La poesia a Teatro.

Veniamo immessi un semi interrato. Si ha come la sensazione di trovarsi in una galleria. Ad accoglierci ci sono già l’attore e al suo fianco un musicista con una chitarra. Sul lato destro ci sono delle lanterne. Assomigliano a quelle che usano i meccanici per riparare le auto. Sono di vario colori. Al centro, in fondo, è posto un telo. Più avanti si potrà capire che è ricavato giustapponendo fra loro camicie, pantaloni. È proprio su questo fondale che verranno proiettate delle immagini. Man a mano che lo spettacolo inizia è come se l’autore ci volesse suggerire l’idea della storia e delle storie impresse sui corpi dei protagonisti.

Lo spettacolo parla di memorie. Di guerra. Di orrore. La voce dell’attore è potente. La sua presenza è forte. E anche se alle volte il suo suono è coperto dalle note della chitarra, l’energia che trasmette viene sempre recepita.

Questa magia però non viene instaurata attraverso la costruzione delle immagini. Il racconto è frastagliato. Tra un racconto e un altro, tra un immagine e un’altra ci sono delle crepe. L’effetto non perde di potenza. La crudezza della guerra, i corpi martoriati, le vite spezzate acquistano in questo modo maggiore efficacia. Ciononostante, la potenza delle parole non è veicolata dal racconto, che per l’appunto è mozzicato, mangiucchiato. La potenza scaturisce dal messaggio poetico. Lo spettacolo infatti procede per illuminazioni, per suggestioni.

In quella galleria siamo difronte alla poesia messa in spettacolo. E senza accorgercene siamo stati catapultati in un rifugio anti-aereo.


CAMILLO ACANFORA



















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