INCANTI SECONDA PARTE/IL REPORT DI EUGENIA PRALORAN
Dopo la prima parte sul Festival torinese di Mario Bianchi ecco le considerazioni di Eugenia Praloran
Del PIP e di altri Incanti
Esito eccellente per il PIP - Progetto Incanti Produce - 2015: sotto la direzione di Nori Sawa, premio Franz Kafka 1999, regista, interprete e artista di Teatro di Figura di grande talento e versatilità, la sinergia dei partecipanti italiani Laura Bartolomei, Marco Intraia e Anna Guazzotti insieme ai polacchi Julianna Dorosz e Marek Marcel Gornicki ha dato luogo a un esito particolarmente felice sia sul piano didattico che in scena con il work in progress finale.
La caratteristica del Progetto Incanti Produce, fin dalla prima edizione nel 2008, è stata l'intenzione di coniugare un'opportunità formativa e di ricerca concreta con la possibilità di una creazione suscettibile di evolvere da work in progress a creazione vera e propria, da proporsi anche oltre l'ambito della presentazione nel corso del Festival Incanti.
Il PIP si rivolge ad artisti giovani e meno giovani, esperti ed esordienti, della scena internazionale, con l'intenzione di favorire un incontro di reciproco arricchimento e di ricerca interdisciplinare. Il cuore del Progetto Incanti Produce risiede nella scelta da parte della Direzione del Festival Incanti di non vincolare il regista ospite e i partecipanti all'obbligo di una creazione asservita alle rigide regole del format destinato alla distribuzione, preferendo consentire un'esperienza di ricerca pura che offre le condizioni migliori per lo studio e la sperimentazione, con l'obiettivo finale di un work in progress, forma di presentazione flessibile ed aperta ad ogni possibile ulteriore sviluppo.
L'invito a dirigere il PIP viene rivolto ogni anno a un esponente della scena internazionale del Teatro d'Ombre e di Figura, tramite un bando che presenta al futuro direttore gli aspiranti partecipanti anche sulla base dei loro interessi e del loro bagaglio interdisciplinare, a differenza di quanto avviene nei contesti in cui si tiene conto di curricula esclusivamente legati a specifiche discipline della scena. L'esperienza del Teatro d'Ombre e di Figura viene così aperta a personalità non necessariamente vincolate al solo universo dei linguaggi scenici, con interessanti sviluppi nel corso della realizzazione del progetto. E' il caso di Anna Guazzotti, talentuosa giovane artista grafica, che ha rivelato una promettente presenza scenica oltre a lanciarsi con intelligente curiosità nell'universo delle tecniche del Teatro d'Ombre con l'utilizzo del retroproiettore sotto la guida generosa di Nori Sawa. Le sue ombre e le sue silhouettes rivelano un segno già sicuro che potrà evolvere rapidamente grazie ad uno sguardo acuto e curioso e alla freschezza della sua personalità.
il PIP basa i propri risultati su tre presupposti: la volontà della direzione artistica del Festival Incanti di ospitare un percorso breve ma succoso di ricerca scenica interdisciplinare; la conseguente decisione di ospitare un processo di ricerca e creazione non necessariamente finalizzato alla produzione di uno spettacolo; infine, la possibilità di far decollare il work in progress finale anche sotto forma di spettacolo vero e proprio, dando però sempre e comunque la priorità alla libertà di ricerca, scambio e sperimentazione in base all'alchimia dell'incontro fra i partecipanti e il loro direttore.
E' infatti caratteristico del PIP che i direttori ospiti diano forma definitiva al proprio progetto dopo la prima fase di sperimentazione insieme ai partecipanti, allo scopo di accogliere e valorizzare in modo ottimale l'apporto e la personalità di ciascuno.
Il PIP attinge a tre sorgenti fondamentali: la disponibilità dei partecipanti a investire tutto il proprio bagaglio de esperienza e di conoscenze nella ricerca guidata dal regista; la ricchezza del suddetto bagaglio; la flessibilità dei partecipanti e la loro disponibilità a mettersi in gioco anche in ruoli imprevisti ed inediti, imparando in tempi stretti.
il PIP è stato finora vincolato ai duri limiti di una ricerca di durata relativamente breve e spezzata in tre fasi distinte, che impongono ai partecipanti il sacrificio non indifferente di tre viaggi a Torino (per i non residenti), e presso sedi differenti, non sempre dotate di caratteristiche sovrapponibili a quelle della sala in cui avrà luogo la presentazione finale. Inoltre, la tempistica del periodo di ricerca e montaggio non sempre consente un'ultima fase di ripetizione prima dell'ultima prova generale.
Dai limiti imposti da tale situazione scaturisce una notevole sfida per i partecipanti, che si trovano nella necessità di mettere a punto una struttura flessibile, agile, a prova di imprevisti, aperta eventualmente anche all'improvvisazione ad ogni istante ed in ogni circostanza. E' di Teatro vivo e di illimitata generosità dei protagonisti che si parla, nell'urgenza dell'istante, accogliendo anche il rischio di qualche imperfezione, fertile però di sfumature di significato e di ulteriori sviluppi in scena, se e quando il work in progress verrà ripreso e riproposto in scena sotto forma di spettacolo, a Torino o altrove.
L'esito finale del PIP 2015 è stato intitolato Flotsam Blues, che potremmo tradurre approssimativamente come "Il Canto dei Relitti Galleggianti In Mare".
Flotsam Blues è un breve, intenso caleidoscopio interdisciplinare di luci, colori, canto, musica, gesti, alternando dramma, poesia e comicità sia attraverso l'interpretazione attoriale che tramite momenti di manipolazione in Teatro d'Ombra e di Figura di originali personaggi creati a partire da materiale di scarto.
A differenza di altre edizioni del PIP in cui il carisma del regista ospite ha sovrastato decisamente l'identità dei singoli partecipanti, Flotsam Blues è caratterizzato profondamente dalla personalità dei suoi interpreti almeno quanto da quella del suo direttore. Nori Sawa ha infatti deciso di incoraggiare ciascun interprete a utilizzare il più liberamente possibile la propria tavolozza di emozioni e di competenze, intervenendo puntualmente a temperare ed arricchire l'apporto di ciascuno sia sul piano tecnico che drammaturgico.
Fondamentali la raffinata preparazione di Julianna Dorosz e Marek Marcel Gornicki, eccellenti attori, cantanti e marionettisti, la loro estrema sensibilità, il loro donarsi senza limiti all'arguta sperimentazione interdisciplinare di Nori Sawa, insieme alla lunga e profonda esperienza scenica internazionale della brava ed esperta Laura Bartolomei, ironica ed autoironica, che ha attinto al proprio ricco percorso come danzatrice contemporanea oltre che attrice e marionettista (la conosciamo bene in azione insieme a Jimmy Davies, geniale cofondatore della Compagnia La Capra Ballerina).
Opportunità eccellente per i più giovani partecipanti italiani, ai quali è stata data la possibilità di vivere un'esperienza suscettibile di aprire nuovi orizzonti per la loro carriera.
Dopo Flotsam Blues, il regista Nori Sawa è passato al ruolo di autore ed interprete con il suo spettacolo-antologia "Kaguya: Bamboo Princess and Other Pieces".
"Kaguya" è, secondo la definizione di Nori Sawa, un "solo silent drama" in cui le tecniche della manipolazione delle marionette Bunraku si fondono con tecnica di mimo ad evocare in un tempo brevissimo, poetico e sospeso, su belle musiche originali di Toshihiro Nakanishi, la vicenda della bellissima Principessa Kaguya (non vi racconteremo la storia: cercate piuttosto di cogliere l'interpretazione di Nori Sawa alla prima occasione, e nel frattempo godetevi il bellissimo film d'animazione, realizzato con tecniche tradizionali e una bellissima tavolozza acquerellata, "Kaguyahime - la principessa tagliabambù", diretto da Isao Takahata ed edito con Studio Ghibli, uscito in sala in Italia pochi mesi fa).
"Kaguya" di Nori Sawa riassume in una breve, intensissima parabola la vicenda di un'intera vita; pochi e fondamentali tagli e cambi di luce determinano per il pubblico la possibilità di cogliere una corrente sottile di sfumature e di emozioni che scorrono rapide ed elusive. Fondamentale l'attenzione dello spettatore, ed essenziale che la sala, e la disposizione e la tempistica del disegno luci, rispettino la raffinata anatomia dei volti scolpiti dei personaggi, la semplicità dei gesti, sottolineando l'importanza di un sospiro, di un gemito, di un abbassarsi o innalzarsi di una fronte di maschera o di marionetta. Ciò che nella tradizione del Teatro giapponese Noh viene definito come Kumorasu (Annuvolarsi) e Terasu (Schiarirsi) si riferisce ad un volto, mutevole come un cielo, essenzialmente di maschera, e pertanto immobile, ma scolpito in modo tale che al minimo inclinarsi l'espressione appaia mutare. Dettagli della scultura dei volti (palpebra, dettaglio della sclera dell'occhio, guancia, arcata sopracciliare, labbra…) fanno sì che uno sguardo s'incupisca o si rassereni, che una bocca sorrida o minacci, che narici sembrino dilatarsi per sorpresa o serrarsi per disgusto, che una fronte si aggrotti o si distenda. Dettagli che richiedono grande sensibilità e finezza di manipolazione. Dettagli che vanno perduti se lo spettatore è distratto, o se la luce non cade con l'angolo perfetto, con l'intensità dovuta. Per un confronto cinematografico: l'episodio della principessa ne "I racconti pallidi della luna d'agosto" ("Ugetsu Monogatari") per la regia di Kenji Mizoguchi, in cui il volto dell'attrice, sostituendosi alla maschera, esegue il movimento di Kumorasu/Terasu nell'istante in cui rivela la propria natura spettrale.
Nel Teatro giapponese tradizionale una serie di convenzioni della manipolazione, della messa in scena, della recitazione, e dello sguardo dello spettatore rendono inesorabilmente evidente questo gioco fra luce ed ombra della scena e fra scintillio e tenebra del cuore umano. Nel gioco scenico di Nori Sawa, enfant terrible che vive e lavora fra Repubblica Ceca e Giappone, fondendo Europa ed Oriente nelle sue creazioni, lo spettatore viene sfidato a cogliere ogni finezza di marionette, pupazzi ed oggetti scenici da un attore/marionettista/manipolatore che non esita a ricorrere ai ritmi del cabaret e della slapstick comedy per creare effetti scenici inediti in deliberato apparente contrasto con i contenuti poetici della narrazione.
Al centro dell'antologia presentata ad Incanti 2015, il breve e folgorante "Seed" ("Il Seme"), creato nel 1992, anno in cui l'autore perse la madre e scelse di trasferirsi dal Giappone in Repubblica Ceca. Un personaggio realizzato con preziosi tessuti già appartenuti alla madre dell'artista agisce in scena alternando registro umano e sovrumano, non-umano: una maschera si trasforma, rivela fattezze mostruose, libera un seme, un nuovo individuo: in un istante lacerante la maschera rivela impressionanti occhi dorati, sul modello delle Deigan ("Occhi d'Oro") del Teatro Noh, volgendosi un'ultima volta verso il Seme che abbandona per sempre, con un gesto che evoca il Kowakare, la separazione finale dal figlio, caratteristico di molti drammi e opere d'arte giapponesi classiche. Nel lampo d'oro degli occhi della creatura, nel fremito prima di volgersi verso l'oscurità, si riassumono interi volumi di letteratura. Da cogliere al volo.
Non manca il momento della comicità con le forme più semplici e accessibili del Coniglio e della Tartaruga, del Granchio e del bruco che vuole diventare una Stella. Fra un grande libro animato e piccoli pupazzi arguti, un'antologia per tutte le età.
Quanto ci è piaciuta la nuova versione de "Un caso cromosomico di Irene Vecchia"? Moltissimo. Fresca vincitrice di un meritatissimo premio Benedetto Ravasio per i giovani artisti, già protagonista di bellissime foto di scena del fotografo giapponese Shin Yamazawa, e selezionata da una giuria attenta e competente nel corso del Festival Incanti 2012 per l'originalità della sua visione poetica, la coerenza del suo percorso, la sincerità della sua visione, Irene Vecchia merita tutti i superlativi del caso, ma non gliene infliggeremo altri, perché è leggera come una piuma, ironica come un gatto partenopeo, e non li sopporterebbe. Preferiamo riportare qui la motivazione della XVIII edizione del Premio Benedetto Ravasio: "Irene Vecchia apprende dai grandi maestri della tradizione napoletana l'arte popolare della guarratella, sviluppa autonomamente una sua ricerca teatrale che privilegia la rappresentazione di "figura" attraverso un uso profondo e attendo di diverse tipologie di spettacolo: i burattini a guanto, le marionette, l'antico teatro delle ombre, dimostrando che la tradizione non impedisce una vera e autonoma ricerca artistica."
Nella versione presentata ad Incanti 2015 de "Un caso cromosomico" Irene Vecchia ha sviluppato alla perfezione il soggetto presentato in nuce nel 2012. Servendosi di personaggi creati secondo la tradizione dei Pastori del presepe napoletano, Irene Vecchia narra una storia napoletana più che mai, ma anche universale, di assoluta attualità, e ci parla di violenza e sopraffazione, di amore, rabbia, vendetta, e contrappasso, di azzardo e di destino, e non possono che fare capolino la morte, la donna e Pulcinella. Non vi diremo altro: dovete vederlo. Autrice e costruttrice anche delle scenografie e degli oggetti scenici, Irene Vecchia è qui drammaturga, interprete, manipolatrice, narratrice, autrice completa. Meravigliose e sorprendenti figure dei personaggi, scolpite e dipinte dalla brava Ilaria Comisso, montate, vestite e acconciate magistralmente da Irene Vecchia. Splendida dimostrazione di come si possa innovare la tradizione, facendo propria non solo la lezione dei grandi del passato, ma anche dei maestri del presente Bruno Leone, Gigio Brunello e Gyula Molnar. Salite anche voi sul treno per Furore.
Jeux de Mains-Jeux de Vilains di e con Sophie Guyot-Tabet, Marion Lalauze e Florian Martinet è una giovane compagnia francese, già ospite del Festival Incanti con uno studio promettente, "Je n'ai absolument pax peur du loup!" che ora è sbocciato in una breve pièce dal ritmo interessante e dai contenuti oh quanto piacevolmente politicamente scorretti. Ecco una Capra di Monsieur Séguin che Alphonse Daudet apprezzerebbe (Adieu, Gringoire..?), un Pierino e il Lupo di Serguei Prokofiev che non si accontenta del suo prato e di farsi soccorrere dal cacciatore. Un piccolo spettacolo che i suoi autori/interpreti annunciano come una creazione al crocevia fra teatro gestuale e di marionette, e che si presenta quasi al confine fra teatro gestuale e teatro nero, dove si evocano paesaggi che si trasformano, dove appare un'irresistibile oca, un gran bel lupo, una Red Hot Riding Goat degna di Tex Avery, il tutto basato sull'efficacia del ritmo e dell'intesa fra sei mani flessibili ed espressive, tre teste pensanti, tre voci accattivanti, sei occhi che non perdono di vista il pubblico, la scena, i compagni d'avventura. Buono per tutte le età e suscettibile di trovare ritmi ulteriormente vincenti, personaggi ancora più accattivanti, qui in un'efficace versione in lingua italiana.
"Choices" della Compagnia Pesci Volanti vorrebbe parlare di giovani vite irrisolte. In realtà ci parla di giovani vite impantanate nei loro problemi. La filosofia del "chissà come sarebbe stato" genera soliloqui di desolante autocompiacimento. Un personaggio afferma, con vigoroso reiterato livore, che nella vita si tratta semplicemente di "imbroccare" una strada, una scelta, un'occasione. Due momenti teatralmente più azzeccati non bastano per redimere il tutto: l'alienazione dell'impiegata che coltiva un insopprimibile desiderio di fuga (lavorare, che noia, guarda un po'), e l'amarezza del ragazzo prevedibilmente diverso, infine prevedibilmente accettato dal padre, la virile montagna che cede ma non crolla (se solo conciliare gli opposti fosse così facile!). Si affoga in un mare di cliché che culminano quando la protagonista si serra la testa in un sacchetto di plastica. No, queste non sono scelte, sono cliché. E nella vita come sulla scena le scelte non si imbroccano per caso, sono frutto di ricerca, studio e impegno. Non c'è bisogno di ponderare, ma di pensare sì, e con cognizione di causa.
I LABORATORI DEL FESTIVAL INCANTI 2015
Uno dei punti di forza di ogni edizione del Festival Incanti che non ci stancheremo mai di sostenere sono i bellissimi laboratori di due giorni che si articolano sul sabato e la domenica di chiusura del Festival. Ammettiamone subito i limiti: ebbene sì, dato che finora si sono sempre svolti presso i laboratori o il teatro del Castello di Rivoli, i partecipanti devono ingegnarsi per raggiungere il Castello. Inoltre, dato che i Laboratori si incastrano nel palinsesto della programmazione, finora purtroppo non hanno mai coperto due intere giornate, dovendo terminare in tempo per consentire di assistere agli spettacoli del tardo pomeriggio. Ma noi ve li raccomandiamo, perché per una cifra simbolica (parliamo di cifre dai 15 ai 50 Euro, accessibili anche in questi tempi di vacche magrissime!) si accede, almeno per qualche ora, agli universi poetici, tecnici, culturali, di artisti venuti da altri paesi, da altre discipline, da altre scuole e da altri teatri, che sempre condividono quanto possono delle loro conoscenze, sia teoriche che pratiche, della loro esperienza, e della loro poetica. Certo, in poche ore non ci si può appropriare di un'intera disciplina; ma ciò che si gusta, che si sperimenta, che si intravvede, che si costruisce, rimane al pertecipante che ogni anno può portarsi a casa una tessera inedita ed inattesa del grande mosaico del Teatro. E Il Festival mette regolarmente a disposizione locali e materiali, spesso fornendo attrezzatura e materia prima di difficile reperibilità (ricordiamo ad esempio gli specchi flessibili del laboratorio "Reflections" del maestro polacco del Teatro delle Ombre Bianche Tadeusz Wierzbiecki nel 2013; l'esperienza con l'inchiostro e i pennelli di scuola orientale con l'artista coreana Kim Eun Young, nel workshop del 2010 "La Calligrafia incontra le Ombre…).
Nel corso dell'Edizione 2015 sono stati proposti due laboratori: "Be part of the Realm of The Shades", diretto da Ingo Mewes, docente e costruttore presso il Dipartimento di Teatro di Figura della storica Accademia Ernst Busch di Berlino, e con Roscha A. Saidow, F"Nuove forme di Teatro dell'Ombra utilizzando i media digitali", di e Franziska Dietrich e Magda Roth della Compagnia berlinese Retrofuturisten, Beni Sanjaya, Aditya Murti, Pambo Priyojati e Ranu Handoko dell Compagnia Indonesiana di innovazione Papermoon Theatre, e Caspar Bankert, Jana Weichelt, e Felix Schiller dell'Accademia Ernst Busch.
Ingo Mewes è un eccellente costruttore capace di creare strutture estremamente efficaci e innovative a partire da una riflessione approfondita su materiali e tecniche di costruzione sia della tradizione (legno, colla animale, crine…) sia innovativi e di avanguardia (leghe speciali, materie plastiche, fibra di vetro…). Dotati delle conoscenze fondamentali relative alla tradizione del teatro di figura, i suoi allievi vengono incoraggiati a proiettarsi verso il futuro, verso la sperimentazione più innovativa. Ingo Mewes proviene da una scuola di pensiero che ritiene che la cultura classica possa e debba supportare lo slancio verso l'innovazione e la ricerca; una corrente che non rinnega la cultura del passato a favore di universi virtuali dai piedi d'argilla. Certamente anche per questo motivo il multimedia esplorato in aula dai suoi allievi e dai loro artisti ospiti indonesiani è un mezzo e non un fine, e viene applicato per esplorare con cognizione di causa e sguardo critico dei contenuti ben precisi, senza nessun autocompiacimento tecnologico. Confrontando nella sperimentazione le sagome tradizionali del Wayang Kulit Indonesiano con sagome realizzate dai partecipanti, retroproiezioni e proiezioni di varia natura, ombre ed effetti sia reali che virtuali, utilizzando videocamere, proiettori, ed altra tecnologia di semplice acquisizione alla portata di tutti i cervelli e per tutte le tasche, il team di giovani artisti e studenti ha guidato gli iscritti al workshop in un'interessante e vivace esplorazione delle potenzialità del multimedia.
Sono state eseguite brevi improvvisazioni, creazione di ambienti sonori dedicati, piccoli esercizi di regia e di costruzione di brevi sequenze di drammaturgia.
Esperienza che raccomanderemmo a tutti, artisti e pubblico, per assaporare una ricerca che non si accontenta dei facili risultati senza perdere di vista il piacere ludico della sperimentazione non solo fra discipline, ma anche fra culture diverse. "Nuove forme di Teatro dell'Ombra utilizzando i media digitali", ovvero come esercitarsi con il multimedia senza perdere di vista mezzi e contenuti non virtuali.
In "Be part of the Realm of The Shades", sotto la guida instancabile di Ingo Mewes, è state invece esplorata e dimostrata la flessibilità di un'interessante modello di cupola gonfiabile per il Teatro d'Ombre (e non solo), realizzato come sviluppo di un progetto originale, ideato nel 1999 per una nuova messa in scena del "Soldatino di Piombo" per il Teatro dei Burattini di Meiningen. I partecipanti hanno potuto costruire sagome ed oggetti originali, esplorare gli effetti di diversi tipi di sorgente luminosa, indagando liberamente il potenziale teatrale dell'oggetto, di cui hanno anche potuto rilevare tecnica di costruzione, materiali e proporzioni. Un workshop estremamente interessante, diretto da un docente generoso che crede nella condivisione delle informazioni, nell'importanza delle conoscenze tecniche (conoscere il legno, scolpire il legno; conoscere la chimica, capire la plastica; conoscere la meccanica…) e nella libertà di sperimentazione ludica come mezzo per apprendere, costruire, verificare ed innovare. Senza dimenticarsi che in scena ci sono sagome, marionette, burattini, oggetti, ma anzitutto corpi umani pensanti, concreti, attivi e reattivi.
IN CHIUSURA DI INCANTI
In chiusura della XXII Edizione del Festival Incanti, dedicata al rapporto tra Teatro di Figura e Letteratura, Alberto Jona ha presentato al pubblico presso la Sala 3 del Cinema Massimo, appartenente al Museo del Cinema di Torino, due capolavori del cinema d'animazione creati e diretti da Hayao Miyazaki: Il Castello nel Cielo e Porco Rosso.
"Il Castello nel Cielo", conosciuto anche come "Laputa - Castle in the sky", del 1986, storico primo lungometraggio dello Studio Ghibli con sceneggiatura e regia di Hayao Miyazaki, prodotto da Isao Takahata, con musiche di Joe Hisaishi, è un film eccezionalmente bello, visionario per poesia di immagini e profondità di contenuti (bellezza della vita, importanza della libertà, dignità e forza vitale dell'infanzia, celebrazione dell'amore, della lealtà, riscatto degli errori del passato, impegno per un futuro migliore). E' caratterizzato dalla vertiginosa bellezza delle prospettive e delle sequenze di animazione (voli, cadute, crolli di architetture, esplosione di orizzonti improvvisamente visibili). Rivisitando in chiave fantascientifica l'Isola Volante descritta nei Viaggi di Gulliver da Jonathan Swift, e attingendo a piene mani alla freschezza dei sentimenti, alla spontaneità e ai ricordi di un'infanzia di cui l'autore ha dichiaratamente fatto tesoro nel corso di tutta la sua vita, traendone limpida ispirazione per tutta la sua produzione, Il Castello Nel Cielo raggiunse il meritato successo mondiale diventando un classico che merita di trovare posto in ogni cineteca.
"Porco Rosso", del 1992, soggetto, sceneggiatura e regia di Hayao Miyazaki, è un'opera meno riuscita in termini di coerenza della narrazione. Epopea della libertà in tempi di tirannide, ambientato in un'Italia anni '30 ampiamente immaginaria, è anzitutto una celebrazione dell'epos dell'aviazione intesa come passione per i liberi cieli. E' ricchissimo di scene spettacolari, compreso un episodio onirico assai poetico, misterioso e straniante. Ma è privo di un vero finale, e la maggior parte di quanto viene presentato (identità dei personaggi, rapporti fra di loro e il periodo storico in esame) è privo di giustificazione in termini di drammaturgia. Tuttavia, contiene meravigliose sequenze di volo di difficilissima realizzazione, e cieli di incredibile luminosità, fra i più belli di tutta la storia del cinema di animazione per profondità di campo e bellezza del colore; e una serie di episodi divertenti lo rendono piacevole. Frutto dell'amore di Hayao Miyazaki per l'arte e la cultura italiana, e della sua ammirazione per i pionieri del nostro cinema d'animazione, Porco Rosso è anche un omaggio alla bellezza del paesaggio italiano, di terra e di mare, di cielo e di case, in tutte le tonalità del blu, del verde, del bianco e dell'azzurro, con una spruzzatina di arcobaleno; e il suo protagonista, pioniere dell'aviazione, si chiama Marco Pagot… come il figlio di uno dei primi grandi autori del cinema di animazione Nino Pagot, attivo per decenni insieme al fratello Toni (inventarono, fra altri personaggi, il pulcino Calimero).
Dedicato agli appassionati dell'aviazione d'antan, meno adatto ai bambini.
Entrambi i film riessumono le principali passioni dell'autore: amore per la libertà e la giustizia; avversione per l'oppressione; nostalgia per i valori e i paesaggi di una società rurale, pre-consumismo, per l'epoca d'oro dell'infanzia; passione sconfinata per il volo ed il cielo; interesse per l'arte e per la tecnologia europea (e in particolare italiana) d'epoca; fiducia nel futuro e nelle generazioni a venire. E, come succede con le migliori creazioni giapponesi, ogni rappresentazione tecnologica assume inedite sfumature poetiche, e ogni bullone viene disegnato, e caratterizzato, con la stessa cura di un fiore o di un volto. Bellissimi sul grande schermo.
EUGENIA PRALORAN
Dopo la prima parte sul Festival torinese di Mario Bianchi ecco le considerazioni di Eugenia Praloran
Del PIP e di altri Incanti
Esito eccellente per il PIP - Progetto Incanti Produce - 2015: sotto la direzione di Nori Sawa, premio Franz Kafka 1999, regista, interprete e artista di Teatro di Figura di grande talento e versatilità, la sinergia dei partecipanti italiani Laura Bartolomei, Marco Intraia e Anna Guazzotti insieme ai polacchi Julianna Dorosz e Marek Marcel Gornicki ha dato luogo a un esito particolarmente felice sia sul piano didattico che in scena con il work in progress finale.
La caratteristica del Progetto Incanti Produce, fin dalla prima edizione nel 2008, è stata l'intenzione di coniugare un'opportunità formativa e di ricerca concreta con la possibilità di una creazione suscettibile di evolvere da work in progress a creazione vera e propria, da proporsi anche oltre l'ambito della presentazione nel corso del Festival Incanti.
Il PIP si rivolge ad artisti giovani e meno giovani, esperti ed esordienti, della scena internazionale, con l'intenzione di favorire un incontro di reciproco arricchimento e di ricerca interdisciplinare. Il cuore del Progetto Incanti Produce risiede nella scelta da parte della Direzione del Festival Incanti di non vincolare il regista ospite e i partecipanti all'obbligo di una creazione asservita alle rigide regole del format destinato alla distribuzione, preferendo consentire un'esperienza di ricerca pura che offre le condizioni migliori per lo studio e la sperimentazione, con l'obiettivo finale di un work in progress, forma di presentazione flessibile ed aperta ad ogni possibile ulteriore sviluppo.
L'invito a dirigere il PIP viene rivolto ogni anno a un esponente della scena internazionale del Teatro d'Ombre e di Figura, tramite un bando che presenta al futuro direttore gli aspiranti partecipanti anche sulla base dei loro interessi e del loro bagaglio interdisciplinare, a differenza di quanto avviene nei contesti in cui si tiene conto di curricula esclusivamente legati a specifiche discipline della scena. L'esperienza del Teatro d'Ombre e di Figura viene così aperta a personalità non necessariamente vincolate al solo universo dei linguaggi scenici, con interessanti sviluppi nel corso della realizzazione del progetto. E' il caso di Anna Guazzotti, talentuosa giovane artista grafica, che ha rivelato una promettente presenza scenica oltre a lanciarsi con intelligente curiosità nell'universo delle tecniche del Teatro d'Ombre con l'utilizzo del retroproiettore sotto la guida generosa di Nori Sawa. Le sue ombre e le sue silhouettes rivelano un segno già sicuro che potrà evolvere rapidamente grazie ad uno sguardo acuto e curioso e alla freschezza della sua personalità.
il PIP basa i propri risultati su tre presupposti: la volontà della direzione artistica del Festival Incanti di ospitare un percorso breve ma succoso di ricerca scenica interdisciplinare; la conseguente decisione di ospitare un processo di ricerca e creazione non necessariamente finalizzato alla produzione di uno spettacolo; infine, la possibilità di far decollare il work in progress finale anche sotto forma di spettacolo vero e proprio, dando però sempre e comunque la priorità alla libertà di ricerca, scambio e sperimentazione in base all'alchimia dell'incontro fra i partecipanti e il loro direttore.
E' infatti caratteristico del PIP che i direttori ospiti diano forma definitiva al proprio progetto dopo la prima fase di sperimentazione insieme ai partecipanti, allo scopo di accogliere e valorizzare in modo ottimale l'apporto e la personalità di ciascuno.
Il PIP attinge a tre sorgenti fondamentali: la disponibilità dei partecipanti a investire tutto il proprio bagaglio de esperienza e di conoscenze nella ricerca guidata dal regista; la ricchezza del suddetto bagaglio; la flessibilità dei partecipanti e la loro disponibilità a mettersi in gioco anche in ruoli imprevisti ed inediti, imparando in tempi stretti.
il PIP è stato finora vincolato ai duri limiti di una ricerca di durata relativamente breve e spezzata in tre fasi distinte, che impongono ai partecipanti il sacrificio non indifferente di tre viaggi a Torino (per i non residenti), e presso sedi differenti, non sempre dotate di caratteristiche sovrapponibili a quelle della sala in cui avrà luogo la presentazione finale. Inoltre, la tempistica del periodo di ricerca e montaggio non sempre consente un'ultima fase di ripetizione prima dell'ultima prova generale.
Dai limiti imposti da tale situazione scaturisce una notevole sfida per i partecipanti, che si trovano nella necessità di mettere a punto una struttura flessibile, agile, a prova di imprevisti, aperta eventualmente anche all'improvvisazione ad ogni istante ed in ogni circostanza. E' di Teatro vivo e di illimitata generosità dei protagonisti che si parla, nell'urgenza dell'istante, accogliendo anche il rischio di qualche imperfezione, fertile però di sfumature di significato e di ulteriori sviluppi in scena, se e quando il work in progress verrà ripreso e riproposto in scena sotto forma di spettacolo, a Torino o altrove.
L'esito finale del PIP 2015 è stato intitolato Flotsam Blues, che potremmo tradurre approssimativamente come "Il Canto dei Relitti Galleggianti In Mare".
Flotsam Blues è un breve, intenso caleidoscopio interdisciplinare di luci, colori, canto, musica, gesti, alternando dramma, poesia e comicità sia attraverso l'interpretazione attoriale che tramite momenti di manipolazione in Teatro d'Ombra e di Figura di originali personaggi creati a partire da materiale di scarto.
A differenza di altre edizioni del PIP in cui il carisma del regista ospite ha sovrastato decisamente l'identità dei singoli partecipanti, Flotsam Blues è caratterizzato profondamente dalla personalità dei suoi interpreti almeno quanto da quella del suo direttore. Nori Sawa ha infatti deciso di incoraggiare ciascun interprete a utilizzare il più liberamente possibile la propria tavolozza di emozioni e di competenze, intervenendo puntualmente a temperare ed arricchire l'apporto di ciascuno sia sul piano tecnico che drammaturgico.
Fondamentali la raffinata preparazione di Julianna Dorosz e Marek Marcel Gornicki, eccellenti attori, cantanti e marionettisti, la loro estrema sensibilità, il loro donarsi senza limiti all'arguta sperimentazione interdisciplinare di Nori Sawa, insieme alla lunga e profonda esperienza scenica internazionale della brava ed esperta Laura Bartolomei, ironica ed autoironica, che ha attinto al proprio ricco percorso come danzatrice contemporanea oltre che attrice e marionettista (la conosciamo bene in azione insieme a Jimmy Davies, geniale cofondatore della Compagnia La Capra Ballerina).
Opportunità eccellente per i più giovani partecipanti italiani, ai quali è stata data la possibilità di vivere un'esperienza suscettibile di aprire nuovi orizzonti per la loro carriera.
Dopo Flotsam Blues, il regista Nori Sawa è passato al ruolo di autore ed interprete con il suo spettacolo-antologia "Kaguya: Bamboo Princess and Other Pieces".
"Kaguya" è, secondo la definizione di Nori Sawa, un "solo silent drama" in cui le tecniche della manipolazione delle marionette Bunraku si fondono con tecnica di mimo ad evocare in un tempo brevissimo, poetico e sospeso, su belle musiche originali di Toshihiro Nakanishi, la vicenda della bellissima Principessa Kaguya (non vi racconteremo la storia: cercate piuttosto di cogliere l'interpretazione di Nori Sawa alla prima occasione, e nel frattempo godetevi il bellissimo film d'animazione, realizzato con tecniche tradizionali e una bellissima tavolozza acquerellata, "Kaguyahime - la principessa tagliabambù", diretto da Isao Takahata ed edito con Studio Ghibli, uscito in sala in Italia pochi mesi fa).
"Kaguya" di Nori Sawa riassume in una breve, intensissima parabola la vicenda di un'intera vita; pochi e fondamentali tagli e cambi di luce determinano per il pubblico la possibilità di cogliere una corrente sottile di sfumature e di emozioni che scorrono rapide ed elusive. Fondamentale l'attenzione dello spettatore, ed essenziale che la sala, e la disposizione e la tempistica del disegno luci, rispettino la raffinata anatomia dei volti scolpiti dei personaggi, la semplicità dei gesti, sottolineando l'importanza di un sospiro, di un gemito, di un abbassarsi o innalzarsi di una fronte di maschera o di marionetta. Ciò che nella tradizione del Teatro giapponese Noh viene definito come Kumorasu (Annuvolarsi) e Terasu (Schiarirsi) si riferisce ad un volto, mutevole come un cielo, essenzialmente di maschera, e pertanto immobile, ma scolpito in modo tale che al minimo inclinarsi l'espressione appaia mutare. Dettagli della scultura dei volti (palpebra, dettaglio della sclera dell'occhio, guancia, arcata sopracciliare, labbra…) fanno sì che uno sguardo s'incupisca o si rassereni, che una bocca sorrida o minacci, che narici sembrino dilatarsi per sorpresa o serrarsi per disgusto, che una fronte si aggrotti o si distenda. Dettagli che richiedono grande sensibilità e finezza di manipolazione. Dettagli che vanno perduti se lo spettatore è distratto, o se la luce non cade con l'angolo perfetto, con l'intensità dovuta. Per un confronto cinematografico: l'episodio della principessa ne "I racconti pallidi della luna d'agosto" ("Ugetsu Monogatari") per la regia di Kenji Mizoguchi, in cui il volto dell'attrice, sostituendosi alla maschera, esegue il movimento di Kumorasu/Terasu nell'istante in cui rivela la propria natura spettrale.
Nel Teatro giapponese tradizionale una serie di convenzioni della manipolazione, della messa in scena, della recitazione, e dello sguardo dello spettatore rendono inesorabilmente evidente questo gioco fra luce ed ombra della scena e fra scintillio e tenebra del cuore umano. Nel gioco scenico di Nori Sawa, enfant terrible che vive e lavora fra Repubblica Ceca e Giappone, fondendo Europa ed Oriente nelle sue creazioni, lo spettatore viene sfidato a cogliere ogni finezza di marionette, pupazzi ed oggetti scenici da un attore/marionettista/manipolatore che non esita a ricorrere ai ritmi del cabaret e della slapstick comedy per creare effetti scenici inediti in deliberato apparente contrasto con i contenuti poetici della narrazione.
Al centro dell'antologia presentata ad Incanti 2015, il breve e folgorante "Seed" ("Il Seme"), creato nel 1992, anno in cui l'autore perse la madre e scelse di trasferirsi dal Giappone in Repubblica Ceca. Un personaggio realizzato con preziosi tessuti già appartenuti alla madre dell'artista agisce in scena alternando registro umano e sovrumano, non-umano: una maschera si trasforma, rivela fattezze mostruose, libera un seme, un nuovo individuo: in un istante lacerante la maschera rivela impressionanti occhi dorati, sul modello delle Deigan ("Occhi d'Oro") del Teatro Noh, volgendosi un'ultima volta verso il Seme che abbandona per sempre, con un gesto che evoca il Kowakare, la separazione finale dal figlio, caratteristico di molti drammi e opere d'arte giapponesi classiche. Nel lampo d'oro degli occhi della creatura, nel fremito prima di volgersi verso l'oscurità, si riassumono interi volumi di letteratura. Da cogliere al volo.
Non manca il momento della comicità con le forme più semplici e accessibili del Coniglio e della Tartaruga, del Granchio e del bruco che vuole diventare una Stella. Fra un grande libro animato e piccoli pupazzi arguti, un'antologia per tutte le età.
Quanto ci è piaciuta la nuova versione de "Un caso cromosomico di Irene Vecchia"? Moltissimo. Fresca vincitrice di un meritatissimo premio Benedetto Ravasio per i giovani artisti, già protagonista di bellissime foto di scena del fotografo giapponese Shin Yamazawa, e selezionata da una giuria attenta e competente nel corso del Festival Incanti 2012 per l'originalità della sua visione poetica, la coerenza del suo percorso, la sincerità della sua visione, Irene Vecchia merita tutti i superlativi del caso, ma non gliene infliggeremo altri, perché è leggera come una piuma, ironica come un gatto partenopeo, e non li sopporterebbe. Preferiamo riportare qui la motivazione della XVIII edizione del Premio Benedetto Ravasio: "Irene Vecchia apprende dai grandi maestri della tradizione napoletana l'arte popolare della guarratella, sviluppa autonomamente una sua ricerca teatrale che privilegia la rappresentazione di "figura" attraverso un uso profondo e attendo di diverse tipologie di spettacolo: i burattini a guanto, le marionette, l'antico teatro delle ombre, dimostrando che la tradizione non impedisce una vera e autonoma ricerca artistica."
Nella versione presentata ad Incanti 2015 de "Un caso cromosomico" Irene Vecchia ha sviluppato alla perfezione il soggetto presentato in nuce nel 2012. Servendosi di personaggi creati secondo la tradizione dei Pastori del presepe napoletano, Irene Vecchia narra una storia napoletana più che mai, ma anche universale, di assoluta attualità, e ci parla di violenza e sopraffazione, di amore, rabbia, vendetta, e contrappasso, di azzardo e di destino, e non possono che fare capolino la morte, la donna e Pulcinella. Non vi diremo altro: dovete vederlo. Autrice e costruttrice anche delle scenografie e degli oggetti scenici, Irene Vecchia è qui drammaturga, interprete, manipolatrice, narratrice, autrice completa. Meravigliose e sorprendenti figure dei personaggi, scolpite e dipinte dalla brava Ilaria Comisso, montate, vestite e acconciate magistralmente da Irene Vecchia. Splendida dimostrazione di come si possa innovare la tradizione, facendo propria non solo la lezione dei grandi del passato, ma anche dei maestri del presente Bruno Leone, Gigio Brunello e Gyula Molnar. Salite anche voi sul treno per Furore.
Jeux de Mains-Jeux de Vilains di e con Sophie Guyot-Tabet, Marion Lalauze e Florian Martinet è una giovane compagnia francese, già ospite del Festival Incanti con uno studio promettente, "Je n'ai absolument pax peur du loup!" che ora è sbocciato in una breve pièce dal ritmo interessante e dai contenuti oh quanto piacevolmente politicamente scorretti. Ecco una Capra di Monsieur Séguin che Alphonse Daudet apprezzerebbe (Adieu, Gringoire..?), un Pierino e il Lupo di Serguei Prokofiev che non si accontenta del suo prato e di farsi soccorrere dal cacciatore. Un piccolo spettacolo che i suoi autori/interpreti annunciano come una creazione al crocevia fra teatro gestuale e di marionette, e che si presenta quasi al confine fra teatro gestuale e teatro nero, dove si evocano paesaggi che si trasformano, dove appare un'irresistibile oca, un gran bel lupo, una Red Hot Riding Goat degna di Tex Avery, il tutto basato sull'efficacia del ritmo e dell'intesa fra sei mani flessibili ed espressive, tre teste pensanti, tre voci accattivanti, sei occhi che non perdono di vista il pubblico, la scena, i compagni d'avventura. Buono per tutte le età e suscettibile di trovare ritmi ulteriormente vincenti, personaggi ancora più accattivanti, qui in un'efficace versione in lingua italiana.
"Choices" della Compagnia Pesci Volanti vorrebbe parlare di giovani vite irrisolte. In realtà ci parla di giovani vite impantanate nei loro problemi. La filosofia del "chissà come sarebbe stato" genera soliloqui di desolante autocompiacimento. Un personaggio afferma, con vigoroso reiterato livore, che nella vita si tratta semplicemente di "imbroccare" una strada, una scelta, un'occasione. Due momenti teatralmente più azzeccati non bastano per redimere il tutto: l'alienazione dell'impiegata che coltiva un insopprimibile desiderio di fuga (lavorare, che noia, guarda un po'), e l'amarezza del ragazzo prevedibilmente diverso, infine prevedibilmente accettato dal padre, la virile montagna che cede ma non crolla (se solo conciliare gli opposti fosse così facile!). Si affoga in un mare di cliché che culminano quando la protagonista si serra la testa in un sacchetto di plastica. No, queste non sono scelte, sono cliché. E nella vita come sulla scena le scelte non si imbroccano per caso, sono frutto di ricerca, studio e impegno. Non c'è bisogno di ponderare, ma di pensare sì, e con cognizione di causa.
I LABORATORI DEL FESTIVAL INCANTI 2015
Uno dei punti di forza di ogni edizione del Festival Incanti che non ci stancheremo mai di sostenere sono i bellissimi laboratori di due giorni che si articolano sul sabato e la domenica di chiusura del Festival. Ammettiamone subito i limiti: ebbene sì, dato che finora si sono sempre svolti presso i laboratori o il teatro del Castello di Rivoli, i partecipanti devono ingegnarsi per raggiungere il Castello. Inoltre, dato che i Laboratori si incastrano nel palinsesto della programmazione, finora purtroppo non hanno mai coperto due intere giornate, dovendo terminare in tempo per consentire di assistere agli spettacoli del tardo pomeriggio. Ma noi ve li raccomandiamo, perché per una cifra simbolica (parliamo di cifre dai 15 ai 50 Euro, accessibili anche in questi tempi di vacche magrissime!) si accede, almeno per qualche ora, agli universi poetici, tecnici, culturali, di artisti venuti da altri paesi, da altre discipline, da altre scuole e da altri teatri, che sempre condividono quanto possono delle loro conoscenze, sia teoriche che pratiche, della loro esperienza, e della loro poetica. Certo, in poche ore non ci si può appropriare di un'intera disciplina; ma ciò che si gusta, che si sperimenta, che si intravvede, che si costruisce, rimane al pertecipante che ogni anno può portarsi a casa una tessera inedita ed inattesa del grande mosaico del Teatro. E Il Festival mette regolarmente a disposizione locali e materiali, spesso fornendo attrezzatura e materia prima di difficile reperibilità (ricordiamo ad esempio gli specchi flessibili del laboratorio "Reflections" del maestro polacco del Teatro delle Ombre Bianche Tadeusz Wierzbiecki nel 2013; l'esperienza con l'inchiostro e i pennelli di scuola orientale con l'artista coreana Kim Eun Young, nel workshop del 2010 "La Calligrafia incontra le Ombre…).
Nel corso dell'Edizione 2015 sono stati proposti due laboratori: "Be part of the Realm of The Shades", diretto da Ingo Mewes, docente e costruttore presso il Dipartimento di Teatro di Figura della storica Accademia Ernst Busch di Berlino, e con Roscha A. Saidow, F"Nuove forme di Teatro dell'Ombra utilizzando i media digitali", di e Franziska Dietrich e Magda Roth della Compagnia berlinese Retrofuturisten, Beni Sanjaya, Aditya Murti, Pambo Priyojati e Ranu Handoko dell Compagnia Indonesiana di innovazione Papermoon Theatre, e Caspar Bankert, Jana Weichelt, e Felix Schiller dell'Accademia Ernst Busch.
Ingo Mewes è un eccellente costruttore capace di creare strutture estremamente efficaci e innovative a partire da una riflessione approfondita su materiali e tecniche di costruzione sia della tradizione (legno, colla animale, crine…) sia innovativi e di avanguardia (leghe speciali, materie plastiche, fibra di vetro…). Dotati delle conoscenze fondamentali relative alla tradizione del teatro di figura, i suoi allievi vengono incoraggiati a proiettarsi verso il futuro, verso la sperimentazione più innovativa. Ingo Mewes proviene da una scuola di pensiero che ritiene che la cultura classica possa e debba supportare lo slancio verso l'innovazione e la ricerca; una corrente che non rinnega la cultura del passato a favore di universi virtuali dai piedi d'argilla. Certamente anche per questo motivo il multimedia esplorato in aula dai suoi allievi e dai loro artisti ospiti indonesiani è un mezzo e non un fine, e viene applicato per esplorare con cognizione di causa e sguardo critico dei contenuti ben precisi, senza nessun autocompiacimento tecnologico. Confrontando nella sperimentazione le sagome tradizionali del Wayang Kulit Indonesiano con sagome realizzate dai partecipanti, retroproiezioni e proiezioni di varia natura, ombre ed effetti sia reali che virtuali, utilizzando videocamere, proiettori, ed altra tecnologia di semplice acquisizione alla portata di tutti i cervelli e per tutte le tasche, il team di giovani artisti e studenti ha guidato gli iscritti al workshop in un'interessante e vivace esplorazione delle potenzialità del multimedia.
Sono state eseguite brevi improvvisazioni, creazione di ambienti sonori dedicati, piccoli esercizi di regia e di costruzione di brevi sequenze di drammaturgia.
Esperienza che raccomanderemmo a tutti, artisti e pubblico, per assaporare una ricerca che non si accontenta dei facili risultati senza perdere di vista il piacere ludico della sperimentazione non solo fra discipline, ma anche fra culture diverse. "Nuove forme di Teatro dell'Ombra utilizzando i media digitali", ovvero come esercitarsi con il multimedia senza perdere di vista mezzi e contenuti non virtuali.
In "Be part of the Realm of The Shades", sotto la guida instancabile di Ingo Mewes, è state invece esplorata e dimostrata la flessibilità di un'interessante modello di cupola gonfiabile per il Teatro d'Ombre (e non solo), realizzato come sviluppo di un progetto originale, ideato nel 1999 per una nuova messa in scena del "Soldatino di Piombo" per il Teatro dei Burattini di Meiningen. I partecipanti hanno potuto costruire sagome ed oggetti originali, esplorare gli effetti di diversi tipi di sorgente luminosa, indagando liberamente il potenziale teatrale dell'oggetto, di cui hanno anche potuto rilevare tecnica di costruzione, materiali e proporzioni. Un workshop estremamente interessante, diretto da un docente generoso che crede nella condivisione delle informazioni, nell'importanza delle conoscenze tecniche (conoscere il legno, scolpire il legno; conoscere la chimica, capire la plastica; conoscere la meccanica…) e nella libertà di sperimentazione ludica come mezzo per apprendere, costruire, verificare ed innovare. Senza dimenticarsi che in scena ci sono sagome, marionette, burattini, oggetti, ma anzitutto corpi umani pensanti, concreti, attivi e reattivi.
IN CHIUSURA DI INCANTI
In chiusura della XXII Edizione del Festival Incanti, dedicata al rapporto tra Teatro di Figura e Letteratura, Alberto Jona ha presentato al pubblico presso la Sala 3 del Cinema Massimo, appartenente al Museo del Cinema di Torino, due capolavori del cinema d'animazione creati e diretti da Hayao Miyazaki: Il Castello nel Cielo e Porco Rosso.
"Il Castello nel Cielo", conosciuto anche come "Laputa - Castle in the sky", del 1986, storico primo lungometraggio dello Studio Ghibli con sceneggiatura e regia di Hayao Miyazaki, prodotto da Isao Takahata, con musiche di Joe Hisaishi, è un film eccezionalmente bello, visionario per poesia di immagini e profondità di contenuti (bellezza della vita, importanza della libertà, dignità e forza vitale dell'infanzia, celebrazione dell'amore, della lealtà, riscatto degli errori del passato, impegno per un futuro migliore). E' caratterizzato dalla vertiginosa bellezza delle prospettive e delle sequenze di animazione (voli, cadute, crolli di architetture, esplosione di orizzonti improvvisamente visibili). Rivisitando in chiave fantascientifica l'Isola Volante descritta nei Viaggi di Gulliver da Jonathan Swift, e attingendo a piene mani alla freschezza dei sentimenti, alla spontaneità e ai ricordi di un'infanzia di cui l'autore ha dichiaratamente fatto tesoro nel corso di tutta la sua vita, traendone limpida ispirazione per tutta la sua produzione, Il Castello Nel Cielo raggiunse il meritato successo mondiale diventando un classico che merita di trovare posto in ogni cineteca.
"Porco Rosso", del 1992, soggetto, sceneggiatura e regia di Hayao Miyazaki, è un'opera meno riuscita in termini di coerenza della narrazione. Epopea della libertà in tempi di tirannide, ambientato in un'Italia anni '30 ampiamente immaginaria, è anzitutto una celebrazione dell'epos dell'aviazione intesa come passione per i liberi cieli. E' ricchissimo di scene spettacolari, compreso un episodio onirico assai poetico, misterioso e straniante. Ma è privo di un vero finale, e la maggior parte di quanto viene presentato (identità dei personaggi, rapporti fra di loro e il periodo storico in esame) è privo di giustificazione in termini di drammaturgia. Tuttavia, contiene meravigliose sequenze di volo di difficilissima realizzazione, e cieli di incredibile luminosità, fra i più belli di tutta la storia del cinema di animazione per profondità di campo e bellezza del colore; e una serie di episodi divertenti lo rendono piacevole. Frutto dell'amore di Hayao Miyazaki per l'arte e la cultura italiana, e della sua ammirazione per i pionieri del nostro cinema d'animazione, Porco Rosso è anche un omaggio alla bellezza del paesaggio italiano, di terra e di mare, di cielo e di case, in tutte le tonalità del blu, del verde, del bianco e dell'azzurro, con una spruzzatina di arcobaleno; e il suo protagonista, pioniere dell'aviazione, si chiama Marco Pagot… come il figlio di uno dei primi grandi autori del cinema di animazione Nino Pagot, attivo per decenni insieme al fratello Toni (inventarono, fra altri personaggi, il pulcino Calimero).
Dedicato agli appassionati dell'aviazione d'antan, meno adatto ai bambini.
Entrambi i film riessumono le principali passioni dell'autore: amore per la libertà e la giustizia; avversione per l'oppressione; nostalgia per i valori e i paesaggi di una società rurale, pre-consumismo, per l'epoca d'oro dell'infanzia; passione sconfinata per il volo ed il cielo; interesse per l'arte e per la tecnologia europea (e in particolare italiana) d'epoca; fiducia nel futuro e nelle generazioni a venire. E, come succede con le migliori creazioni giapponesi, ogni rappresentazione tecnologica assume inedite sfumature poetiche, e ogni bullone viene disegnato, e caratterizzato, con la stessa cura di un fiore o di un volto. Bellissimi sul grande schermo.
EUGENIA PRALORAN