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recensioni
La donna di porto Pim di Teatro Gioco Vita
FRANCESCA ROMANA LINO LO HA RIVISTO PER EOLO

Non è una lezione spettacolo, “La Donna di Porto Pim”, dall'omonimo racconto di Tabucchi, che la compagnia Gioco Vita di Piacenza ha portato in scena al Teatro Verdi di Milano per le sole due date del 29 e 30 novembre 2017; non è una lezione spettacolo, eppure c'è un uso del tutto sperimentale - o quanto meno non convenzionale – del teatro d'ombra, che, in filigrana alla narrazione, ma senza alcuna interferenza, offre quasi una “visita guidata” nella bottega del giocattolaio. Alla loro maniera: forzando il registro e mostrandone i “trucchi”; quel che ne vien fuori è una sorprendente amplificazione di senso nella sovrascrittura delle simbologie, all'interno di una partitura precisa, accurata e ben fatta. Tutto è al posto giusto, ivi compresi quegli ingredienti irrinunciabili, in un accadimento teatrale, che sono meraviglia, emozione, riconoscimento e consonanza.
Alle spalle, la prestigiosa storia di compagnia – l'avventura partiva nel lontano 1971 – e un rosario di collaborazioni preziose (Teatro La Fenice di Venezia, Royal Opera House Covent Garden di Londra, Teatro alla Scala di Milano, Arena di Verona, Ater, Ert, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino e Piccolo Teatro di Milano), sia in Italia che all'estero (Europa, Stati Uniti, Brasile, Messico, Canada, Giappone, Cina, Israele e Taiwan) coronato da premi e riconoscimenti, sì, ma, anche senza sapere nulla di tutto ciò, lo si vede a occhio nudo, il lavoro minuzioso e prezioso.
Intanto la scelta: un racconto di Tabucchi, qui; quindi con un intento espressamente volto ad un pubblico adulto, facendo propri un autore e una narrazione tanto affini, per suggestione, a quelle ombre – chissà, fantasmi, forse, qui; o illusioni, chimere, ossessioni -, con cui questa Compagnia di teatro per ragazzi armeggia da sempre. Come un gioco di scatole cinesi, una matrioska in cui ciascuna ne racchiude un'altra al suo interno, il racconto narra di uno scrittore italiano, che, in una bettola di Faial, nelle Isole Azzorre, riceve le confidenze del vecchio scalcagnato suonatore di viola. Sembrerebbe quasi solo un pittoresco fenomeno per turisti, abituato a suonare, tacere ed ascoltare; eppure stavolta ce l'ha lui, una storia da raccontare: è la rievocazione della sua infanzia, in controluce alla piccola economia di sussistenza della comunità locale fondata sulla caccia alla balena e il sopravvivere di quella ritualità quasi magica, che spesso popola un certo surrealismo latino - oltre al penoso spopolamento dell'isola a causa della migrazione dei giovani in cerca di fortuna. E che ne è di chi resta? Uno degli scenari possibili è appunto quello raccontatoci in questa pièce, in cui amore e morte – o forse sarebbe meglio dire passione e struggimento, fascinazione e tradimento, ossessione, negazione e pazzia – la fanno da protagonisti. Si consuma tutto qui, in questo scenario di “montagne di fuoco, vento e solitudine” o, come rettifica lo stesso narratore, “di balene e naufragi [...] in cui le  balene, che più che animali sembrerebbero metafore, come l'atto mancato del naufragio”: metafore, che, come l'amore e l'arte, irridono coloro che sognano d'imprpigionarle.
Una scrittura di certo lirica, pur nella sua scorrevolezza prosaica, costruita per affastellamenti, in cui le suggestioni quasi si sovrappongo; ed ecco che in maniera del tutto analoga procede la tessitura d'ombre, in cui sovente una ne nasconde un'altra, in uno continuo stupefacente gioco di proiezioni. L'una, a vista, spesso - dalla ribalta verso il fondo -; in direzione opposta, l'altra - da dietro il fondale verso la platea -, fino a creare, sullo schermo condiviso, un suggestivo improbabile incontro, che dice già di quanta impalpabile vacuità ci sia in quell'esserci e toccarsi. E poi l'acqua, che fa della bacinella cheta un oceano in burrasca, complice anche un apparato sonoro costante, suggestivo, emozionale e d'atmosfera, con quei suoi ritmi pesinhos, sapateiras e modinhas e quelle luci, che, esigenze di canone vogliono spesso smorzate per poi riaccendersi, a rievocazione vissuta, in tonalità calde come le atmosfere e gli animi di quell'isola; e poi il legno e la sabbia, solve et coagula, come in un'atropaica alchimia spesso dominata dal residuo di un gesto arrotondato, che si fa quel vortice entro cui tutto rischia di collassare. E poi, costanti, i topoi di quella follia ossessiva: la silhoette della donna amata – riproposta e strombata, nella sua immutabilità, in mille varianti dimensionali, prospettiche e di senso - e l'occhio della balena – a spiare... Già, perché anche se nella messa in scena non è detto, il Post Sriptum del racconto di Tabucchi si conclude con la balena che descrive gli uomini dal suo punto di vista:“E come sono poco rotondi, senza la maestosità delle forme compiute e sufficienti, ma con una piccola testa mobile nella quale pare si concentri tutta la loro strana vita...” E tutto torna.
Il tutto è reso attraverso l'interazione costante fra l'attore/manipolatore e gli oggetti/sagome d'ombra, in cui, sia l'uno che gli altri, hanno un peso specifico non trascurabile. Così, se Tiziano Ferrari è l'agile triplice protagonista della storia – un rapido alleggerimento d'abito ed eccolo destreggiarsi nei ruoli dello scrittore-testimone del racconto così come in quelli del musicista da vecchio e poi di lui stesso da giovane -, non minor importanza hanno le “cose”. Anzitutto la chitarra – negli intenti quella viola de arame, preferita alla fiocina, in quello che il baleniere stesso visse come un lacerante tradimento - non a caso rappresenta il vecchio musico, a inizio narrazione, ma,  più avanti, nello svelato gioco d'ombre, suggerisce anche le curve della donna amata, creando un potentissimo cortocircuito; e poi i vestiti: quelli che, per tutto il tempo della rievocazione, lo aspettano, ripiegati in buon ordine, in un cantuccio del proscenio, a ricordarci che, quello, è il racconto nel racconto (nel racconto, in alcuni passaggi). Curioso, è  la stessa cosa, che, in fondo, ci dice anche il gesto con cui il pizzicatore di corde si sfila, dall'alto, la pesante palandrana: un gesto che immediatamente ci riporta alla memoria quello con cui si ribaltano quei burattini, che nascondono in sé personaggi antitetici o complementari, così da impersonare più punti di vista di una medesima storia. Notevole, quindi, il lavoro di creazione e assemblamento del progetto di Tiziano Ferrari e Fabrizio Montecchi: in cui tutto restituisce la sensazione di un lavoro voluto e pensato, senza lasciar nulla all'imprecisione dell'indefinito, ma riuscendo invece a restituire senso, incanto, emozione e consapevolezza altissimi.

FRANCESCA ROMANA LINO